l Covid ci ha posto
di fronte ad una crisi eccezionale che ci obbliga ad alcune
riflessioni, anche in termini di parità di genere, iniziando da un
dato: a livello globale, il virus sembra impattare in misura maggiore
sugli uomini, che sembrano manifestare una mortalità da coronavirus
più elevata rispetto alle donne. Tuttavia, questo non equivale a
dire che le ripercussioni sulle donne saranno meno dirompenti.
Anzi!. Prendiamo, ad esempio, la chiusura delle scuole, decisione
indispensabile che, tuttavia, appesantisce le responsabilità di cura
non retribuite, che sono generalmente appannaggio dell’universo
femminile. le donne si fanno carico del cosiddetto lavoro di cura non
retribuito in una misura tre volte maggiore rispetto a quella degli
uomini e, anche per far fronte a queste attività non retribuite, si
trovano in larga misura ad accettare posizioni lavorative part-time.
Sotto il profilo puramente economico, proprio per l’evidenza che le
donne costituiscono una grande fetta di lavoratori part-time e
informali in tutto il mondo e in Italia, l’epidemia potrebbe avere
un impatto sproporzionatamente negativo su di loro. Il rischio è
che, a causa dell’epidemia, l’uguaglianza di genere faccia un
clamoroso passo indietro. In questa prospettiva, occorre portare
avanti due importanti ordini di considerazioni. Il primo tema
riguarda le attività retribuite di cura, che anche in questo caso
vengono generalmente affidate alle donne. In questo ambito, stiamo
assistendo ad una transizione dall’economia retribuita a quella non
retribuita che sta interessando tutti i lavori di cura e ad una
conseguente (e drammatica) contrazione dell’occupazione. Non è
solo una questione di impostazione ideologica o di norme sociali:
queste scelte vengono effettuate anche, in molti casi, sulla base di
aspetti pratici, ovvero considerando chi percepisce una retribuzione
più modesta o chi ha un contratto più flessibile. Pertanto, dal
momento che scuole ed asili nido sono stati chiusi, il lavoro
aggiuntivo di assistenza non retribuito sarà nuovamente caricato in
misura prevalente sulle donne. Per non parlare, poi, del fatto che,
dal momento che il sistema sanitario non è in grado di accogliere
tutti i malati di Covid, molte persone che sono state colpite dal
virus hanno ricevuto indicazione di rimanere in casa e anche questo
rappresenta ovviamente un carico di cura ulteriore a cui molte donne
risponderanno riducendo le loro ore di lavoro o rinunciando tout
court al lavoro retribuito per potersi prendere cura di bambini,
malati ed anziani.
E qui si pone il
grande interrogativo: quali basi vogliamo porre per il post-Covid?
A leggere alcuni
titoli di articoli di giornale, il lavoro “da casa”, erroneamente
etichettato come smart working, potrebbe agevolare le mamme. Come se l’associare la
cura dei figli, della casa, degli anziani, degli animali e di tutto
quello che nel mondo ha bisogno di essere “curato” debbano essere
(qualcuno dice per predisposizione naturale) proprio le donne. Mamme
e non. Come se si fosse fatto, dal punto di vista della narrazione
della vita familiare, un salto indietro almeno fino agli anni
Cinquanta. Si confonde il concetto di uguaglianza di diritti
con quello di corrispondente uguaglianza di atteggiamenti, scelte,
espressioni della libertà individuale, attitudini. Il
problema – ad esempio – non è, guardando ai dati citati, se le
mamme passino il 7% o il 21% di tempo con i figli in più o in meno
rispetto ai padri, ma se nella determinazione di questo equilibrio
abbiano un ruolo elementi discriminatori che inducono in una
direzione o le costringano a fare una scelta. Perché in qualsiasi
contesto che voglia garantire la parità (e quello di genere è solo
uno dei tanti esempi di parità) ciò che si deve rifuggire è un
meccanismo che trasformi la parità in livellamento ed annichilamento
delle differenze, che invece vanno valorizzate ed enfatizzate perché
rappresentano la vera ricchezza di ogni società multiculturale.
Quindi dire che donne passano il 10% in più rispetto agli uomini nel
supporto per i compiti non significa assolutamente nulla, se non si
indaga quanto quel 10% rappresenti il frutto di una costrizione o di
una scelta. Una società equa non è quella in cui i figli sono
accuditi esattamente al 50%, ma quella che consente al genitore che
vuole occuparsene (anche magari a discapito di altro) di farlo
indipendentemente dal suo genere. È il caso del telelavoro
in questo periodo: il punto non è se uomini e donne si dividano
equamente le attività, ma se in questa divisione delle attività
entrino fattori esterni di tipo discriminatorio che inducano in una
scelta penalizzante per uno dei due generi.
Da uno studio di questio periodo emerge che in questi due mesi di lockdown, le
donne con figli hanno lavorato più dei papà, visto
il loro impiego in servizi essenziali, dove la presenza femminile
risulta più alta rispetto alla maschile. Su
100 occupate con almeno un figlio con meno di 15 anni, 74 hanno
lavorato ininterrottamente (contro 66 uomini nella stessa
condizione), il 12,5% ha ripreso il lavoro dallo scorso 4 maggio,
mentre il 13,5% dovrebbe ritornare alla propria attività entro la
fine del mese. La stessa ricerca, guardando allo smart working come
opportunità, evidenzia come le lavoratrici meno qualificate non
potranno lavorare “da remoto” e dovranno tornare in sede oltre
che accudire i figli: sono 1 milione 426 mila (il 48,9% delle
lavoratrici mamme), di queste circa 710 mila percepiscono uno
stipendio netto inferiore ai 1.000 euro.
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