mercoledì 27 maggio 2020

CASALINGHE DISPERATE IN SMART WORKING



l Covid ci ha posto di fronte ad una crisi eccezionale che ci obbliga ad alcune riflessioni, anche in termini di parità di genere, iniziando da un dato: a livello globale, il virus sembra impattare in misura maggiore sugli uomini, che sembrano manifestare una mortalità da coronavirus più elevata rispetto alle donne. Tuttavia, questo non equivale a dire che le ripercussioni sulle donne saranno meno dirompenti. Anzi!. Prendiamo, ad esempio, la chiusura delle scuole, decisione indispensabile che, tuttavia, appesantisce le responsabilità di cura non retribuite, che sono generalmente appannaggio dell’universo femminile. le donne si fanno carico del cosiddetto lavoro di cura non retribuito in una misura tre volte maggiore rispetto a quella degli uomini e, anche per far fronte a queste attività non retribuite, si trovano in larga misura ad accettare posizioni lavorative part-time. Sotto il profilo puramente economico, proprio per l’evidenza che le donne costituiscono una grande fetta di lavoratori part-time e informali in tutto il mondo e in Italia, l’epidemia potrebbe avere un impatto sproporzionatamente negativo su di loro. Il rischio è che, a causa dell’epidemia, l’uguaglianza di genere faccia un clamoroso passo indietro. In questa prospettiva, occorre portare avanti due importanti ordini di considerazioni. Il primo tema riguarda le attività retribuite di cura, che anche in questo caso vengono generalmente affidate alle donne. In questo ambito, stiamo assistendo ad una transizione dall’economia retribuita a quella non retribuita che sta interessando tutti i lavori di cura e ad una conseguente (e drammatica) contrazione dell’occupazione. Non è solo una questione di impostazione ideologica o di norme sociali: queste scelte vengono effettuate anche, in molti casi, sulla base di aspetti pratici, ovvero considerando chi percepisce una retribuzione più modesta o chi ha un contratto più flessibile. Pertanto, dal momento che scuole ed asili nido sono stati chiusi, il lavoro aggiuntivo di assistenza non retribuito sarà nuovamente caricato in misura prevalente sulle donne. Per non parlare, poi, del fatto che, dal momento che il sistema sanitario non è in grado di accogliere tutti i malati di Covid, molte persone che sono state colpite dal virus hanno ricevuto indicazione di rimanere in casa e anche questo rappresenta ovviamente un carico di cura ulteriore a cui molte donne risponderanno riducendo le loro ore di lavoro o rinunciando tout court al lavoro retribuito per potersi prendere cura di bambini, malati ed anziani.

E qui si pone il grande interrogativo: quali basi vogliamo porre per il post-Covid?

A leggere alcuni titoli di articoli di giornale, il lavoro “da casa”, erroneamente etichettato come smart working, potrebbe agevolare le mamme. Come se l’associare la cura dei figli, della casa, degli anziani, degli animali e di tutto quello che nel mondo ha bisogno di essere “curato” debbano essere (qualcuno dice per predisposizione naturale) proprio le donne. Mamme e non. Come se si fosse fatto, dal punto di vista della narrazione della vita familiare, un salto indietro almeno fino agli anni Cinquanta. Si confonde il concetto di uguaglianza di diritti con quello di corrispondente uguaglianza di atteggiamenti, scelte, espressioni della libertà individuale, attitudini. Il problema – ad esempio – non è, guardando ai dati citati, se le mamme passino il 7% o il 21% di tempo con i figli in più o in meno rispetto ai padri, ma se nella determinazione di questo equilibrio abbiano un ruolo elementi discriminatori che inducono in una direzione o le costringano a fare una scelta. Perché in qualsiasi contesto che voglia garantire la parità (e quello di genere è solo uno dei tanti esempi di parità) ciò che si deve rifuggire è un meccanismo che trasformi la parità in livellamento ed annichilamento delle differenze, che invece vanno valorizzate ed enfatizzate perché rappresentano la vera ricchezza di ogni società multiculturale. Quindi dire che donne passano il 10% in più rispetto agli uomini nel supporto per i compiti non significa assolutamente nulla, se non si indaga quanto quel 10% rappresenti il frutto di una costrizione o di una scelta. Una società equa non è quella in cui i figli sono accuditi esattamente al 50%, ma quella che consente al genitore che vuole occuparsene (anche magari a discapito di altro) di farlo indipendentemente dal suo genere.  È il caso del telelavoro in questo periodo: il punto non è se uomini e donne si dividano equamente le attività, ma se in questa divisione delle attività entrino fattori esterni di tipo discriminatorio che inducano in una scelta penalizzante per uno dei due generi.

Da uno studio di questio periodo emerge che in questi due mesi di lockdown, le donne con figli hanno lavorato più dei papà, visto il loro impiego in servizi essenziali, dove la presenza femminile risulta più alta rispetto alla maschile. Su 100 occupate con almeno un figlio con meno di 15 anni, 74 hanno lavorato ininterrottamente (contro 66 uomini nella stessa condizione), il 12,5% ha ripreso il lavoro dallo scorso 4 maggio, mentre il 13,5% dovrebbe ritornare alla propria attività entro la fine del mese. La stessa ricerca, guardando allo smart working come opportunità, evidenzia come le lavoratrici meno qualificate non potranno lavorare “da remoto” e dovranno tornare in sede oltre che accudire i figli: sono 1 milione 426 mila (il 48,9% delle lavoratrici mamme), di queste circa 710 mila percepiscono uno stipendio netto inferiore ai 1.000 euro.


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