venerdì 30 ottobre 2015

A ciascuno il suo



Entra in vigore il 14 novembre 2015 il decreto del ministero della Giustizia 12 agosto 2015 n. 144, che disciplina il «Regolamento recante disposizioni per il conseguimento e il mantenimento del titolo di avvocato specialista, a norma dell’articolo 9 della legge 31 dicembre 2012, n. 247» La nuova normativa costituisce uno strumento importante per la categoria, ma pone non pochi problemi deontologici.
Due allora, i punti che si possono intanto esaminare: i (simili) requisiti per la prima iscrizione in base alla “comprovata esperienza” (articolo 8), e per il suo mantenimento (articolo 11).
A proposito del primo la riflessione non può non tener conto di un altro aspetto cruciale, quello della definizione dei settori di specializzazione: la constatazione che di fronte all’esteso numero di settori più o meno attinenti al diritto civile vi è un’unica “area” per il diritto penale (così come per quello amministrativo). La maggior parte delle controproposte sono state non nel senso di suggerire di “unificare” anche quello del diritto civile, o comunque ridurne i settori come l’eliminazione di quello della “responsabilità civile”. D’altronde è tanto più facile ottenere l’iscrizione per comprovata esperienza, e poi mantenerla, quanto più generico è l’ambito.
Detto questo, sono lecite fin d’ora alcune note a margine del testo pubblicato con particolare attenzione alla rilevanza deontologica della nuova normativa.
In sintesi i requisiti richiesti sono: anzianità di iscrizione all’Albo di otto anni, e (sia ai sensi dell’articolo 8 che dell’articolo 11) numero di “incarichi” fiduciari (anche stragiudiziali, quindi) non inferiore a quindici per anno, ma con esclusione di quegli «affari che hanno ad oggetto medesime questioni giuridiche e necessitano di un’analoga attività difensiva». Quindi, per dire, l’avvocato specialista civilista dovrebbe certamente essere non di “primo pelo” e inserito in una struttura tale da assicurargli un notevole flusso di lavoro settoriale; mentre la verifica delle sue effettive capacità teorico-pratiche è lasciata (nel solo caso dell’articolo 8) al “colloquio” disposto dal Cnf sulla base di“parametri” e dei “criteri” per condurlo non ancora individuati ed eseguiti da un organo apposito nemmeno accennato.
Riflessioni che appaiono quindi non prive di perplessità, di qui la considerazione deontologica:
  • non si operi una moltiplicazione evangelica degli incarichi (nella maggior parte dei casi l’incarico è costituito dalla risoluzione non di una sola, ma di diverse questioni giuridiche),  oppure
  • non ci si metta d’accordo all’interno degli studi per associare fittiziamente il collega nei mandati.
Si potrebbe allora concludere che in materia assuma valore decisivo una verifica deontologica: ma, se fosse possibile ex post, per esempio in occasione di questioni di responsabilità professionale con “premesse” o “strascichi” disciplinari, sarebbe assai difficile pensare che un simile tipo di controllo possa essere esercitato da un organo centrale quale la (eventuale, futura) articolazione del Cnf. Per l’altro aspetto accennato (la visibilità sul mercato dei servizi legali consentita dall’esibizione della qualifica) si può ipotizzare uno scenario apparentemente paradossale: laddove la macro area (oggi, il diritto civile) sia suddivisa in numerosi settori, può essere controproducente sceglierne uno (o, al massimo, due), perché ciò significherebbe lanciare alla potenziale clientela un messaggio informativo tendente a restringere l’offerta. Sarà il caso di tutti quei professionisti che siano ben capaci di prestare una competente assistenza in più di un campo della stessa branca del diritto. Di conseguenza si potrà legittimamente essere specialisti di sole due aree ma grandi esperti di molte di più.
Tutto bene, invece, per chi non ha del suo.