domenica 1 dicembre 2019

Il Rosso non è solo il colore del Natale




«Non vi chiediamo una condanna severa, pesante, esemplare. Non ci interessa la condanna – esordì Lagostena BassiNoi vogliamo che in quest’aula ci sia resa giustizia, che è una cosa diversa. Che cosa intendiamo quando chiediamo giustizia come donne? Chiediamo che anche nelle aule dei Tribunali, e attraverso ciò che avviene nelle aule dei Tribunali, si modifichi la concezione socio-culturale del nostro Paese, si cominci a dare atto che la donna non è un oggetto. Questa è la nostra richiesta». La “lezione” più importante del processo di Latina fu la richiesta di risarcimento simbolico contro lo stupro della dignità della vittima.  Il 9 agosto è entrato in vigore il cosiddetto Codice rosso la n. 69 del 19 luglio 2019 “contro la violenza domestica e di genere”. La legge prende il nome dall’obbligo per le procure italiane di ascoltare chi sporge denuncia per violenza sessuale o familiare entro tre giorni dalla iscrizione del procedimento. Il Codice, pur introducendo una lunga serie di nuovi reati, tra cui il quello di revenge porn, di costrizione al matrimonio e il reato cosiddetto “reato di sfregio”, rischia di rivelarsi dannoso, diventando il pretesto per dividere le donne nelle due categorie di vittime inermi o bugiarde nonché l’inevitabile critica di chi potrebbe sostenere che se ad ogni fatto si deve rispodere con urgenza niente sarà più veramente urgente.  

In Italia la violenza sulle donne in ambito familiare è un fenomeno endemico, con quasi 3 milioni le donne che hanno dichiarato  di aver subito violenza dal partner o ex partner. Secondo l’Istat, “la maggior parte delle donne che avevano un partner violento in passato lo hanno lasciato proprio a causa della violenza subita (68,6%)”. Eppure, quando i giornali raccontano i femminicidi, ribaltano la realtà evitando di sottolineare che la violenza maschile è la causa della rottura nella gran parte dei casi. La narrazione dominante vuole che sia la fine della relazione a scatenare il raptus omicida, perpetrando un sistema culturale che colpevolizza le donne per la violenza subita, e solleva gli uomini violenti dalle loro responsabilità. Questa mentalità  pesa sulla coscienza delle donne, che mantengono spesso il silenzio sulle violenze, nel timore che la denuncia finisca per danneggiarle.  Invero, non è infrequente nelle aule di giustizia ascoltare linee difensive che invocano un trattamento sanzionatorio più mite in quanto la condotta dell’imputato sarebbe stata cagionata dal comportamento “ambiguo” della vittima nei confronti dello stesso, dal fatto che la vittima avrebbe innescato in lui il “dubbio” di un tradimento e, quindi, in un certo senso, avrebbe “meritato” di sottostare ai maltrattamenti del compagno. È evidente, quindi, che l’intervento giudiziario in questo tipo di violenza non può estrinsecarsi con i medesimi strumenti che si adoperano al cospetto di altre forme di violenza.  Nel 1999 fece molto discutere la “sentenza sui jeans” in cui la Cassazione annullava la condanna inflitta dalla Corte di appello (Cass. sent. n. 1636/1998) affermando testualmente: «Deve poi rilevarsi che è un dato di comune esperienza che è quasi impossibile sfilare anche in parte i jeans di una persona senza la sua fattiva collaborazione, poiché trattasi di una operazione che è già assai difficoltosa per chi li indossa». Era il 2006 quando venne emanata dalla Cassazione (Sez. 3, Sentenza n. 6329 del 2006) un’altra sentenza che ha fatto discutere: violentare una donna non più vergine porta ad una condanna più lieve. La sentenza della Cassazione ha riconosciuto che la vittima minore di età era stata effettivamente violentata dal patrigno, ma senza aggravanti poiché ella «aveva avuto numerosi rapporti sessuali con uomini di ogni età» ed è quindi «lecito ritenere che già al momento dell’incontro con l’imputato la sua personalità, dal punto di vista sessuale, fosse molto più sviluppata di quella di una ragazza della sua età». 
Tali sentenze hanno alla base l’idea che la violenza sulla donna sia sempre in qualche misura determinata dalla stessa vittima la quale, quindi, da persona offesa diventa essa stessa imputata. Anche in tempi recenti, hanno avuto molto risalto mediatico alcune sentenze che, come già accaduto in passato, hanno riportato all’attenzione degli interpreti tale approccio al fenomeno della violenza di genere, vale a dire un approccio che appare fondato su quegli stessi stereotipi che sono proprio all’origine della violenza stessa. Nella sentenza della Corte di assise di appello di Bologna n. 29/2018 del 14 novembre2018, sul femminicidio di Olga Matei, la Corte ha riformato la sentenza di primo grado, concedendo le attenuanti generiche all’imputato. La Corte ha ritenuto che l’azione omicidiaria era stata cagionata  da «una tempesta emotiva e passionale» che secondo la Corte è idonea ad incidere sulla misura della responsabilità penale. Nella sentenza del Tribunale di Genova del 17 dicembre 2018 (sent. n.1340/2018) sul femminicidio di Angela Coello Reyes sono state parimenti riconosciute le attenuanti generiche all’imputato. Nella sentenza si legge che l’impulso che ha portato l’imputato a colpire la moglie con il coltello è scaturito da un «sentimento molto forte ed improvviso», che egli non ha semplicemente agito sotto la spinta della gelosia ma di un misto di rabbia e di disperazione, profonda delusione e risentimento, acuito dai fumi dell’alcol, dalla stanchezza per il lungo viaggio e dal «comportamento ambiguo della vittima». La sentenza, pur riconoscendo che l’imputato non aveva agito sotto la spinta della provocazione, ha ritenuto che il contesto nel quale si era collocata la sua azione omicidiaria si poneva, in un’ipotetica scala di gravità, su di un gradino più basso e meritava una pena meno severa. La sentenza afferma, quindi, che l’imputato ha agito sotto la spinta di un «moto di gelosia fine a sé stesso», per l’incapacità di accettare che la moglie potesse preferirgli un altro uomo, e come «reazione al comportamento della donna», del tutto incoerente e contraddittorio che l’ha illuso e disilluso nello stesso tempo. Le sentenze e le parole usate per scrivere queste sentenze influenzano, formano e riproducono comunque opinioni, orientamenti, comportamenti e senso comune. 
Le parole e il linguaggio non sono mai neutrali e s’inseriscono sempre in un discorso pubblico. Le affermazioni usate nelle sentenze in questione, ad esempio, mostrano la pervasività del culto delle emozioni nelle nostre società contemporanee. Si rende, pertanto, necessaria  una maggiore autoconsapevolezza e riflessione da parte dei giudici sulla cultura in cui operano. Proprio perché i magistrati non vivono nell’empireo è da loro che deve venire una riflessione su cosa le loro sentenze producono e sulla cultura che loro stessi esprimono e sostengono consapevolmente o inconsapevolmente. Senza contare che a volte anche le sentenze possono produrre mutamenti culturali. Di cosa è fatta la discrezionalità dei giudici se non da un complesso intreccio fra conoscenza giuridica, sensibilità, cultura ed esperienza personale?  Questa è a tutti gli effetti l’origine del problema: e non può quindi essere confusa con una “circostanza”, cioè con un elemento accessorio o di contorno, perché è invece l’essenza della violenza di genere; ed è profondamente sbagliata, pericolosa e contraria ai diritti umani. Perché la loro chiamata in causa implica un riconoscimento, quantomeno parziale, di tolleranza sociale. Invece, quell’incancellabile e meraviglioso “diritto di essere quello che si vuole”, inscritto prima di tutto nella natura umana, richiede, fra le tante altre cose ancora oggi negate (non solo) alle donne, anche la certezza che non si riconosca alcun rilievo esimente o attenuante a stati emotivi che gli altri si costruiscano semplicemente perché non si è state/i quello che loro si aspettavano.