"Prima cosa ammazziamo
tutti gli avvocati" (Amleto)
"Cosa sono 1000
avvocati incatenati al fondo dell'oceano? Un buon inizio..." (Tom Hanks)
Queste due battute a distanza di 400 anni l’una dall’altra
sono il modo migliore per aprire l’argomento su una delle professioni da sempre
più discusse. Perché, diciamoci la verità, appena si parla di “avvocati” la
prima idea che corre è quella di difensori dei diritti o azzeccagarbugli abili
solo a far assolvere i colpevoli? Professionisti della logica o dotati retori?
La linea di confine è così labile che l’immaginario collettivo li ha sempre
collocati a cavallo tra la menzogna e il rigore.
La parola “avvocato” deriva dal latino advocatus sostantivo derivante dal
participio passato del verbo advoco = ad-vocatum = chiamato a me,
vale a dire "chiamato per difendermi", cioè "difensore".
L’odio da sempre legato al legale va a braccetto con
la parola “parcella“: un peso che ha trascinato questa categoria nel più
profondo girone dantesco. Perché bisogna pagare per far valere i propri
diritti? In realtà, la risposta è la stessa per cui bisogna remunerare un
medico per godere di buona salute o aprire un mutuo per avere un tetto sotto
cui dormire.
I primi avvocati erano anche filosofi, e questo
perché non esistevano corpi legislativi definiti e certi. Erano, insomma, la
classe che non zappava, ma guardava le stelle. Un’anima teorica che, a quanto sembra,
è rimasta sino ad oggi.
Ciò che, però, si ignora è che, ai tempi dei romani,
il compenso dell’avvocato era la fama, acquisita la quale si poteva
pensare d’intraprendere la carriera politica. In quel periodo sussisteva il
divieto di ricevere denaro in cambio delle proprie prestazioni professionali e
la violazione di tale precetto era sanzionata con una pena pecuniaria. Il
divieto, sin da allora e secondo buona prassi italica, veniva sistematicamente
raggirato poiché era consentito – proprio come avviene oggi nei migliori
ambienti della pubblica amministrazione – accettare doni e regalie da parte dei
clienti riconoscenti. Da qui venne il detto: “ianua advocati pulsanda pede”
(“alla porta dell’avvocato si bussa col piede”, visto che le mani sono occupate
a reggere i doni).
“La giurisprudenza estende la mente e allarga le
vedute”: una considerazione che, seppur vera, si scontra con la prassi. Il
carattere di un avvocato, infatti, è permaloso e presuntuoso.
Provate a fargli cambiare idea: se ci riuscirete sarà solo perché lui vi ha
fatto credere così. In realtà, ogni avvocato resta sempre della propria idea.
Giusta o sbagliata che sia. Ed anche dopo la sentenza che gli dà torto. A
sbagliare è sempre il giudice o la legge.
L’avvocato è una persona abituata a fare domande
e, nello stesso tempo, ad essere evasivo a quelle che gli vengono rivolte. È
solito prendere decisioni e a prenderle in fretta (calcolate la differenza di
tempi con un ingegnere e vedrete!). È dotato di problem solving e il suo
obiettivo è trovare l’escamotage per uscire fuori dal problema, in
qualsiasi modo possibile.
Inoltre, l’avvocato, nell’esercizio della propria
professione, è un irriducibile individualista: se ne sta nel suo studio,
a coltivare le sue pratiche, e l’idea dell’associativismo gli fa venire
l’orticaria.
Egli considera ogni minuto sottratto al proprio lavoro
una perdita di tempo. Il tempo appunto: ogni legale nasce con l’orologio
al polso, e questo perché la vita professionale è costellata di scadenze.
Così come la caratteristica di ogni buon medico è
quella di scrivere le ricette con una grafia incomprensibile, dote di ogni avvocato
è parlare con un linguaggio mai chiaro per il cittadino. Tra latinismi,
istituti, tecnicismi, concettualismi, astrazioni, teorie e interpretazioni,
commi, articoli, leggi, leggine e sentenze, il vocabolario del legale è
precluso ad ogni persona che non sia, appunto, un altro legale. E questo – a
quanto sembra – gratifica infinitamente ogni avvocato che si rispetti.
Su tutto, però, l’avvocato è un relativista
nell’accezione più pirandelliana del termine. La realtà non esiste (e chi se ne
frega!): esiste solo ciò che appare dalle carte. Tutto il resto è mutevole,
contraddittorio, variabile, volubile, capriccioso, instabile. Tanto vale non
pensarci e accontentarsi di ciò che racconta il cliente.
Si dice che il problema dell’avvocatura sia il numero. Su 9.000
giudici, in Italia ci sono circa 220.000 avvocati.
in Italia nel corso degli anni è andata progressivamente
crescendo una grande inflazione nel numero di avvocati: poco dopo la fine degli
anni novanta
del XX secolo,
quando in Francia esercitavano solo ottomila avvocati sull'intero territorio
nazionale, fu l'ex vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura Giovanni Verde a dire che
nella sola provincia di Napoli c'erano più avvocati che Oltralpe
Quel paragone venne riesumato dal presidente reggente
della corte d'Appello di Roma, Claudio Fancelli, che alla
cerimonia di inaugurazione dell'anno giudiziario 2008 per inciso accolla lo
sfascio del processo civile e penale all'«abnorme numero di avvocati» presenti
nella città di Roma.
In quell'occasione Fancelli non fece numeri, ma dichiarò:
« L' abnorme numero di avvocati iscritti all' Ordine forense, a Roma tanti quanti l' intera Francia, può inconsapevolmente determinare il rischio di un incremento del ricorso dei cittadini alla giurisdizione e quindi, stante la carenza strutturale di risorse, un allungamento dei tempi processuali»
« L' abnorme numero di avvocati iscritti all' Ordine forense, a Roma tanti quanti l' intera Francia, può inconsapevolmente determinare il rischio di un incremento del ricorso dei cittadini alla giurisdizione e quindi, stante la carenza strutturale di risorse, un allungamento dei tempi processuali»
In realtà, il
problema sarebbe di gran lunga più grave se di avvocati ve ne fossero pochi,
circostanza che aprirebbe le porte alla scarsità e, quindi, a tariffe ancora
più alte e a una certa difficoltà a poter difendere tutti.
Permaloso e Presuntuoso, appunto (
lo sa persino l’ex Ministro Cancellieri)!!
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