domenica 27 marzo 2016

Gallina scripsit

Questo articolo ha la presunzione di autodedicarsi a due amici Daniela Rossi e Alessandro Coppola che con la parola, la prima, e con le illustrazioni, il secondo, danno voce forte alla comunicazione. Questo a dimostrazione, opposta e contraria a quanto i giudici fanno ultimamente, che con la passione, la buona volontà e qualcosa da manifestare e rivelare; si dialoga.

La motivazione della sentenza, sebbene si tratti del provvedimento “a contenuto decisorio costante, nel percorso estremo di “semplificazione” degli atti processuali civili  è spesso “succinta”, quasi fosse un’ordinanza. In parallelo – però – norme, prassi, orientamenti anche della Cassazione spingono verso una sempre più complessa strutturazione degli atti di parte. Gli avvocati scrivono sempre più fin dal primo grado e specie in fase di impugnazione divengono tutti vittima d’una super-scrittura fobica, temendo, come infatti sempre più spesso fondatamente temono, di incappare nelle tagliole dell’inammissibilità, del difetto di specificità, della carenza argomentativa sul singolo motivo. Ripetere il già detto sembra il prezzo da pagare per non rischiare di sottacere l’essenziale. Assistiamo così a una forte divaricazione tra atti e provvedimenti: mentre all’avvocato è richiesto un impegno di scrittura addirittura ossessivo, per il giudice le cose stanno ormai molto diversamente.
Un piccolo omaggio ad un nuovo amico
A lui si chiede di decidere di più e di farlo senza inutili formalismi entro un “termine ragionevole”; la somministrazione delle ragioni della decisione è questione decisamente passata in secondo piano. Lart. 111 Cost. stabilisce che «tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati». In ossequio a tale prescrizione il codice di procedura civile esige che la sentenza contenga la concisa esposizione «dei motivi in fatto e in diritto della decisione» L’obbligo della motivazione assolve alla funzione di assicurare in concreto il perseguimento di diversi principi costituzionali in tema di giurisdizione, quali il diritto di difesa, l’indipendenza del giudice e la sua soggezione alla legge, nonché il principio di legalità. Ai sensi dell’art. 118, co. 1°, disposizioni di attuazione del c.p.c., la motivazione della sentenza consiste nella concisa esposizione dei fatti rilevanti della causa e delle ragioni giuridiche della decisione, anche con riferimento a precedenti conformi. In essa debbono essere esposte concisamente e in ordine le questioni discusse e decise dal collegio ed indicati le norme di legge e i principi di diritto applicati. La violazione dell’obbligo di motivazione determina l’invalidità del provvedimento giurisdizionale e può essere fatta valere attraverso il sistema delle impugnazioni). 
Per quanto riguarda il ricorso per cassazione, in particolare, l’art. 360 prevede quale motivo di impugnazione l’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio. Anche se quella di scrivere a mano la sentenza è una prassi ancora frequente nell'epoca della digitalizzazione del processo e conformemente al percorso dell’eccessiva semplificazione (per non dire pigrizia), se la sentenza è manoscritta e la grafia dell’estensore illeggibile, si rende necessario l'annullamento, non della sola sentenza-documento, ma dell'intero giudizio, che dovrà essere svolto ad opera di diverso magistrato. Così ha deciso la Suprema Corte nella sentenza 7 novembre 2014, n. 46124. Nella fattispecie, un uomo, riconosciuto in primo e secondo grado colpevole del delitto di ingiuria, proponeva ricorso in cassazione deducendo nullità della sentenza e la violazione del diritto di difesa per la indecifrabilità della grafia dell'estensore. La Suprema Corte, nell’accogliere il ricorso, ha precisato che, a causa della grafia del giudice (che, verosimilmente, per la scarsa dimestichezza con il pc, ha preferito manoscrivere la sentenza), non è possibile comprendere compiutamente quale sia la trama argomentativa della sentenza. 
L'importanza della scrittura e della sua capacità rivelatrice
Come chiarito dalle SS. UU. nella sentenza n. 42363/2006, l'indecifrabilità della sentenza, quando non sia limitata ad alcune parole e non dia luogo a una difficoltà di lettura agevolmente superabile, è causa di nullità d'ordine generale a regime intermedio. Invero, infatti, la sentenza non è un “atto privato” del giudicante, ma costituisce un decisum (e un documento) rivolto a terzi (alle parti e, eventualmente, al giudice del gravame) e, pertanto, deve essere comprensibile. Vengono in mente le parole che Kafka, nel Processo, mette in bocca al sacerdote che nel Duomo parla al suo unico, sgomento spettatore K.: la sentenza non viene «così all’improvviso», ma è il processo stesso che lentamente, inesorabilmente si trasforma in sentenza. Nell’intuizione del grande scrittore boemo possono riconoscersi vari fenomeni processuali: dalla formazione progressiva del giudicato al thema decidendum frutto di preclusioni e decadenze; fino al setaccio degli elementi che, al termine del processo, il giudice potrà considerare ai fini del decidere. Il giudice è chiamato ad affermare il diritto e non condivide con nessuno tale responsabilità.

lunedì 14 marzo 2016

Donne e toga: Imbecillitas sexus


I nomi epicèni (dal gr. epíkoinon "comune", sottinteso génos "genere") sono nomi che hanno un’unica forma per il maschile e il femminile, indipendentemente dal sesso dell’essere animato a cui si riferiscono. A certe denominazioni, comunque, non siamo abituati. Il maschile, come la toga, “traveste e nasconde”. Con l’espressione l’avvocato, si dà la precedenza alla funzione rispetto alla persona che la svolge, ma si finisce anche per replicare “lo stereotipo millenario della calza e non della toga, della domus e non della polis”, così duro a morire, prima di tutto dentro le donne. Diversamente, avvocatessa, è sentita come ironica o addirittura dispregiativa Quella dell'avvocato resta nella percezione comune una professione ancora prestigiosa, ma è non più al top. Ai primi posti nella classifica delle professioni d'eccellenza secondo gli italiani si collocano i medici (il 37% ha attribuito il punteggio massimo su una scala da 1 a 10), seguiti dai magistrati (25%), i professori universitari (19,5%), i notai (17%), gli ingegneri (15%), gli imprenditori (15%) e i dirigenti d'azienda (13%). Politici (9%), avvocati (9%) e dirigenti di banca (8%) occupano la metà della classifica, mentre in coda figurano commercialisti (5%) e geometri (4%). Per il 16% degli italiani il prestigio della professione forense è aumentato nel corso degli ultimi anni, per il 47% è rimasto invariato, per il restante 37% è invece diminuito. Sono i risultati del «Rapporto annuale sull'avvocatura» realizzato dal Censis per la Cassa Forense Nazionale. E più specificatamente per le donne avvocate?
Sono in numero crescente, si appassionano alle vicende umane dei propri assistiti, riescono a compenetrarsi nei problemi, sono spesso più preparate e determinate dei colleghi maschi: eppure, quello delle donne nell'avvocatura è un percorso ancora tutto in divenire, che paga lo scotto di secoli di arretratezza culturale. La presenza delle donne nel mondo del diritto ha radici lontane: Giustina Rocca, avvocatessa del Foro di Trani , è passata alla storia come il primo avvocato donna del mondo. Di lei resta celebre la sentenza arbitrale pronunciata, in lingua volgare, l’8 aprile del 1500 al cospetto del governatore veneziano di Trani Ludovico Contarini cui assistettero tutti i suoi concittadini.
Maria Pellegrina Amoretti fu, sul finire del settecento, la prima donna a scegliere di laurearsi in giurisprudenza, senza però proseguire nel lungo processo verso l’abilitazione professionale, probabilmente troppo all’avanguardia per una giovane donna di quei tempi che volesse, verosimilmente, essere anche madre e moglie. La giovane Lidia Poet, invece, fu protagonista di un episodio singolare, destinato a fare la storia dell’avvocatura nazionale in rosa: scelse ed ottenne, nel 1883, di iscriversi all’albo professionale, ma la sua iscrizione fu annullata dalla Corte di Appello di Torino con motivazioni che, rilette oggi, fanno a dir poco accapponare la pelle. Tra le argomentazioni espresse dalla sentenza, la cd. imbecillitas sexus, in uno ad un’asserita incapacità naturale della donna ad esercitare la professione, definita troppo sconveniente già solo nell’abbigliamento femminile sotto la toga, idoneo addirittura a compromettere la serietà dei giudizi finali. 
Sono tante le donne che scelgono il tortuoso cammino della libera professione forense e ce ne sono tante nelle aule di giustizia. Tuttavia, la strada delle donne nell’avvocatura è ancora lunga da percorrere e siamo ben lontani dalla brillante figura dell’avvocato Amanda Bonner, interpretata magistralmente Katharine Hepburn al fianco di Spencer Tracy nel film “La costola di Adamo”. Perché il bel sesso continua, almeno nel nostro Paese, a pagare lo scotto di voler essere e dover essere, secondo la mistica della maternità al pari di Maria Pellegrina Amoretti prima che una professionista, una moglie ed una madre, con pesanti ricadute sulla professione forense.

lunedì 7 marzo 2016

Donne e rivoluzione: ottomarzo contro il mobbing



La parola mobbing è stata coniata ufficialmente da un etologo austriaco, Konrad Lorenz che è anche l’autore di quel magnifico libro che è “l’anello di Re Salomone”. Il significato iniziale, infatti, si riferiva a tutti quegli atteggiamenti animali perpetrati da uno o più membri di un gruppo nei confronti di quello che potrebbe essere definito come l'anello debole dell'insieme, al fine di estraniare il soggetto dal resto branco e allontanarlo. Con il termine "to mob", in sostanza, si intende letteralmente: accalcarsi intorno a qualcuno, affollarsi, assalire tumultuando. Oggi si intende quella forma di terrore psicologico, esercitato, con modalità e tempistiche ben precise, in danno di un collega di lavoro, di un subordinato, di un individuo più debole, con il chiaro intento di danneggiarlo ed emarginarlo. Il mobbing si distingue in tre categorie: Il mobbing verticale (o bossing) è la classica forma nella quale si estrinseca il mobbing e consiste negli abusi e nelle vessazioni perpetrati ai danni di uno o più dipendenti da un loro diretto superiore gerarchico. In questi casi le possibilità di ribellarsi a tali atteggiamenti sono spesso molto limitate e di non facile attuazione, in ragione dei rapporti di forza sbilanciati tra mobber e mobbizzato. Il mobbing orizzontale, invece, si intende l'insieme di atti persecutori messi in atto da uno o più colleghi nei confronti di un altro, spesso finalizzati a screditare la reputazione di un lavoratore mettendo in crisi la sua posizione lavorativa. Si tratta di comportamenti difficili da fronteggiare e denunciare soprattutto se attuati da un gruppo. Per quanto raro può verificarsi il low mobbing. 
Si tratta di una serie di azioni che mirano a ledere la reputazione delle figure di spicco aziendali da parte di un buon numero di dipendenti per motivi semplici quanto futili, come antipatia o invidia. La più diffusa è il bossing. Consiste nell'esclusione dai meeting del personale dipendente e il tenere nascoste solo ad alcuni dipendenti le informazioni che usualmente vengono diffuse tra tutti. Tra gli altri, il fenomeno del ridimensionamento di ruolo nella comunità aziendale, che vede brillanti dipendenti (ritenuti potenzialmente pericolosi per lo status di alcuni alti membri del comitato direttivo a rischio) incaricati di mansioni di poco conto, come quella di fare fotocopie o gestire la posta di altri dipendenti di pari rango, che li demotivano e limitano l'espressione delle proprie capacità e conoscenze. Il mobbing, non a caso, riguarda spesso grandi aziende, le quali lo utilizzano per aggirare la normativa a tutela dei licenziamenti cagionando nel lavoratore "sgradito" una condizione di stress psico-fisico, idonea a determinarlo ad abbandonare di sua "spontanea volontà" il luogo di lavoro.
 Esso può anche essere la conseguenza del rifiuto, da parte della vittima, delle avances del superiore o del collega poi divenuto mobber. Una forma più attenuata di mobbing è il cd. “Straining” ovvero una situazione di stress forzato sul posto di lavoro, in cui la vittima subisce almeno una azione che ha come conseguenza un effetto negativo nell’ambiente lavorativo, azione che oltre ad essere stressante, è caratterizzata anche da una durata costante. Affinché si possa parlare di straining è dunque sufficiente una singola azione stressante cui seguano effetti negativi duraturi nel tempo (come nel caso di gravissimo demansionamento o di svuotamento di mansioni). Questa definizione è stata coniata dalla Corte di Cassazione sez. penale che con la sentenza n. 28603 del 03 luglio 2013 qualificò i comportamenti ed episodi di emarginazione di mobbing attenuato.
In ambito penalistico il mobbing è il reato che non esiste! I comportamenti mobbizzanti, infatti, a determinate condizioni possono cagionare delle conseguenze riconducibili al reato di lesioni personali di cui all'articolo 590 del codice penale, le molestie o gli atti persecutori. Il mobbing è un atto di violenza consapevole, una vessazione che scava nell’autostima e nella gioia di vivere trasformando il lavoro in un incubo. Le donne, per varie ragioni, in Italia e nel resto del mondo sono le più colpite. Facciamo il punto. Stando all’ultimo monitoraggio dell'Ispesl, Istituto per la prevenzione e la sicurezza del lavoro che sul mobbing ha aperto un centro d'ascolto, nel nostro Paese sono circa un milione e mezzo i lavoratori vittime di questa vessazione. Il problema è più diffuso al nord (65 per cento) e, come già detto, colpisce maggiormente le donne (52 per cento). Il 70 per cento delle vittime lavora nella pubblica amministrazione, con una produttività che mediamente, in seguito ai primi episodi di violenza, cala del 70 per cento. Tra le categorie più esposte gli impiegati (79 per cento) e, tra questi, i diplomati (52 per cento) e i laureati (24 per cento). E, secondo l’ultimo rapporto Eurispes, i superiori restano i principali responsabili (87,6 per cento) ma spesso l'aguzzino è un collega (39,2 per cento). Tra gli impiegati di azienda la differenza è più netta: abbiamo un 38,5 per cento di uomini contro un 61,5 di donne, dato da cui si evince quanto queste, nel privato, siano maggiormente costrette a sopportare violenze di ogni tipo, per via di una possibile maternità presente o futura o di probabili impegni familiari”.
 Ad essere vessati sono, principalmente, i soggetti più deboli, quindi le donne incinte o che hanno famiglia numerosa e i disabili. Le donne mobbizzate sono in numero maggiore rispetto agli uomini perché quelle in maternità, ad esempio, rappresentano un peso per l’azienda, quasi tutte stanno a casa quando i figli si ammalano, e più ne hanno e più creano danno con le assenze. Rispetto agli uomini, poi, sono molte di più le donne che usufruiscono delle agevolazioni previste dalla legge 104/92 per la cura dei disabili, quindi sono loro, di solito, a occuparsi di familiari gravemente ammalati e le assenze, di massimo tre giorni al mese, danno fastidio. In altri termini, si puniscono le condotte mobbizzanti facendo ricorso ad altri reati. La condotta del mobbing può essere punita a titolo di lesioni quando il mobber abbia pregiudicato la salute psichica. A titolo di violenza sessuale quando abbia costretto a compiere o subire atti sessuali. Altrettanta tutela offre il reato di molestie, quello di minaccie quello di maltrattamenti quando i soprusi siano periodici. Queste, sono solo alcune delle, molteplici, forme di tutela attraverso cui il lavoratore potrà difendersi, sporgendo un'apposita querela contro il responsabile. Sarà necessario dimostrare che la malattia del lavoratore sia conseguenza immediata e diretta della condotta mobbizzante. Se già a dirlo è molto complicato, figuriamoci a farlo. I disturbi tipici dello stress sono, infatti, multi-fattoriali perciò non è agevole dimostrare che il malessere derivi proprio dal lavoro. Il mobbing è una nozione civilistica che presenta alcune somiglianze con il reato di atti persecutori, presupponendo entrambi come elementi costitutivi la reiterazione di atti aventi determinate caratteristiche di induzione di sofferenza nel soggetto passivo. E’ la ripetitività, la pluralità, la costanza dei comportamenti, la consapevolezza del loro numero e la previsione nel soggetto passivo che essi si ripeteranno e diventeranno più invasivi a costituire l’aspetto essenziale delle due fattispecie di illecito. In entrambe si deve attuare una sorta di progressione, che nella figura tipica si svolge tendenzialmente in senso peggiorativo e diventa sempre più insopportabile sino a che non si verifica l’evento, costituito dalle ripercussioni negative sulla persona della vittima che attengono alla sfera della riservatezza, della dignità e della libertà morale del destinatario, suscettibili di riverberarsi sulla stessa integrità fisica, quale somatizzazione di sofferenze morali e psichiche. Mentre il mobbing si caratterizza per forme sfumate di vessazione, il reato di atti persecutori richiede come elemento costitutivo comportamenti che, di per sé, costituirebbero reati autonomi occorrendo infatti per la configurazione del reato molestie e/o minacce. Pertanto rispetto ad una mera condotta di mobbing l’incriminazione si basa innanzitutto sull’aver posto in essere azioni già di per sé punibili penalmente. Mobbing e stalking sono accomunati inoltre dai pregiudizi causati sulla vittima di tipo morale (mortificazione, sensazioni di abbandono, emarginazione), psichico (depressione, mutamento del carattere) e psicosomatico concretanti patologie conclamate e riconoscibili. Pertanto, la linea differenziale tra la figura civilistica e quella rilevante come delitto viene a risiedere nelle modalità materiali con le quali è posta in essere la condotta abusante: se il comportamento vessatorio rivela la perpetrazione di fatti di per sé rilevanti penalmente, quali le minacce e le molestie, l’autore viene a trovarsi esposto all’esercizio dell’azione penale. 
Ciò premesso, il fatto che in alcune sentenze penali si sia parlato di mobbing, sta perciò soltanto a significare che si è voluta dare una etichetta a comportamenti di per sé penalmente rilevanti ai fini ad esempio del delitto di maltrattamenti in famiglia o di violenza privata. Come già sottolineato per il mobbing nei rapporti familiari, la menzione di esso nel contesto delle pronunce penali ha soltanto il valore di ricorso a concetti conosciuti per far intendere la realtà degli episodi che costituivano la materia del decidere ed a completamento della motivazione dei provvedimenti. Un pensiero positivo ci viene dal Flash mob (dall'inglese flash, lampo, inteso come evento rapido, improvviso, e mob, folla), termine coniato nel 2003 per indicare un assembramento improvviso di un gruppo di persone in uno spazio pubblico, che si dissolve nel giro di poco tempo, con la finalità comune di mettere in pratica un'azione insolita. Il raduno viene generalmente organizzato via internet (posta elettronica, reti sociali) o telefonia cellulare. Le regole dell'azione di norma vengono illustrate ai partecipanti pochi minuti prima che questa abbia luogo, ma se necessario possono essere diffuse con un anticipo tale da consentire ai partecipanti di prepararsi adeguatamente. http://www.comune.venezia.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/1410