domenica 15 novembre 2015

La tenuità del fat(T)o



Il 2 aprile 2015 è entrato in vigore il D.Lgs. 16 marzo 2015, n. 28 che introduce nel nostro ordinamento penale un nuovo istituto giuridico: la non punibilità per particolare tenuità dell’offesa. Si tratta di un complesso apparato per cui saranno i Giudici i protagonisti della depenalizzazione potendo stabilire quali fatti non punire e quali, invece, meritano di essere perseguiti. Difatto, introducendo l’art. 131 bis nel codice di procedura penale, il legislatore consente il proscioglimento per reati (anche d’impatto sociale) puniti fino a cinque anni di reclusione, nei casi in cui il P.M. od il Giudice ravvisino la lieve entità del fatto. La prima conseguenza è che la pena prevista è talmente alta che comprende un numero eccezionale di reati, fra i quali, soltanto per citarne alcuni: la corruzione impropria, l’abuso e l’omissione di atti d’ufficio, molte ipotesi di falso, alcuni reati tributari (la dichiarazione infedele, l’omessa dichiarazione, l’omesso versamento dell’IVA e della ritenuta d’acconto) il falso in bilancio. Chiaramente non possono godere della non punibilità: i recidivi; i delinquenti abituali, professionali o per tendenza; chi abbia commesso più reati della stessa specie; le condotte plurime abituali o ripetute. Nemmeno, certamente, chi abbia agito per motivi abietti e futili adoperato sevizie, o profittato delle condizioni di minorata difesa della vittima, anche minorenne. L’uso di sevizie difficilmente avrebbe potuto essere considerato suscettivo di positiva valutazione!! Vi è di più, la lieve tenuità non può mai riguardare il reato di lesioni gravissime (si tratta di quelle che abbiano comportato la perdita di un senso o di un organo; tuttavia che è implicitamente consentita la non punibilità delle lesioni gravi (in cui si presenta l’indebolimento permanente di un senso o di un organo). Non è tutto: il giudizio di lieve entità si iscrive sul casellario giudiziale (la fedina penale) e nei procedimenti correlati (civile ed amministrativo) alla stregua di una condanna. La diffusione di elenchi cui si applicherebbe ha causato l’erroneo convincimento che il decreto legislativo comporti la loro depenalizzazione. La differenza è palese: con la depenalizzazione, tutti i reati, a prescindere dalle modalità con le quali in concreto si sono consumati, vengono meno; con la lieve entità , non sono punibili i reati, sanzionati in astratto nel massimo con la pena di cinque anni di reclusione o con la pena pecuniaria, solo qualora siano in concreto scarsamente offensivi. Nel primo caso, il legislatore stabilisce a priori le condotte che non costituiscono più reato; nel secondo caso, il legislatore attribuisce al giudice il potere di verificare. Per questo motivo, il decreto prevede che avverso la richiesta di archiviazione presentata dal P.M. l’indagato possa presentare opposizione ed ottenere un’udienza camerale davanti al Gip nella quale persuaderlo della sua innocenza invece che del modesto rilievo del suo comportamento illecito. Tecnicamente, il PM, verificata la ricorrenza delle condizioni volute dalla legge, deve chiedere l’archiviazione. Della richiesta deve essere dato avviso sia all’imputato che alla parte offesa, anche se quest’ultima, con la denuncia o querela, non abbia chiesto di essere avvisata in caso di richiesta di archiviazione. Resta salva la facoltà per il Giudice di rigettare la richiesta di archiviazione e provvedere ai sensi dell’art. 409 c.p.p.
Concludendo sembra evidente che una seria verifica della sussistenza dei presupposti, dell’effettiva offensività del fatto e della personalità del reo sono incompatibili con il dichiarato scopo deflattivo dell’istituto; riducendo l’obiettivo della riforma, alla scomparsa dei fascicoli bagatellari che affollano i nostri uffici penali; cosicchè le esigenze di economia processuale prevalgano su quelle di legalità ed obbligatorietà dell’azione penale. La particolare tenuità del fatto deve sperimentare la giustizia penale riparativa e riconciliativa, diffondendo protocolli secondo i quali la non punibilità è riconosciuta qualora l’imputato abbia, spontaneamente e prima del processo, provveduto ad eliminare le conseguenze dannose del reato od a riconciliarsi con la vittima. Diversamente, il principio di offensività venga strumentalizzato per “snellire” i ruoli penali.

giovedì 5 novembre 2015

Amor, amor di nostra vita ultimo inganno:parola dei giudici



In amore la menzogna interessata è lecita. La vicenda risale al 2009, quando tra due infermieri di un noto ospedale meneghino scoppia una storia d'amore. Da subito, l'uomo comincia a chiedere soldi alla compagna, promettendone sempre la restituzione, prima per pagare le tasse e poi per intraprendere una attività in Perù. La donna contrae un mutuo di 10mila euro per venire incontro alla richiesta del partner che effettivamente di lì a poco parte per il Sud America, dove lei lo raggiunge consegnandogli altro denaro. Una volta tornati a Milano però lui cambia atteggiamento e la lascia.
Dopo varie richieste di restituzione non evase, incassata la fregatura,  la disputa approda davanti al tribunale milanese dove il giudice investito della questione si domanda «se è concepibile il reato di truffa quando una persona inganni il proprio ‘compagno' (o la propria ‘compagna') circa i propri sentimenti, al solo scopo di ottenere un vantaggio patrimoniale con altrui danno». La risposta, in linea teorica, è che si è concepibile, tuttavia in concreto essa è «difficilmente ravvisabile». Infatti, anche per «evitare una spropositata estensione dell'area penale», si dovrebbero rigorosamente accertarne tutti gli elementi tipici, vale a dire: la condotta fraudolenta, il dolo ed anche la relazione consequenziale tra l'errore sul sentimento e l'atto dispositivo. Sotto il primo profilo osserva la sentenza, in assenza di raggiri «il semplice mentire sui propri sentimenti – la nuda menzogna - non integra una condotta tipica di truffa» (Trib. Milano, Sez. III, sent. 14 luglio 2015) .
Con riferimento al dolo, poi, esso dovrebbe sussistere fin dall'inizio, cioè essere alla base stessa della relazione. Infine, per quanto riguarda il terzo aspetto bisognerebbe poter affermare che il raggirato sia stato effettivamente determinato nella sua generosità soltanto dalla errata convinzione circa l'altrui sentimento. Ma ciò è molto difficile da provare perché, osserva il giudice, vi potrebbero essere altre cause alla base della dazione. Ed il tribunale fa l'esempio di un «ricco erede» che fosse stato ingannato da una «giovane e bellissima donna» e l'avesse ricoperta di «doni» e «ingenti capitali»: anche in questo caso non ci sarebbe reato, poiché esiste il «ragionevole dubbio» che la «presunta vittima» non si sarebbe comportata in modo diverso pur «sapendo della reale intenzione» della donna, magari perché «ben lieto di accompagnarsi all'avvenente ragazza».

Stesso discorso vale per l’accusa di appropriazione indebita: le parti avevano pattuito la restituzione delle somme prestate. Per la legge si tratta di un contratto di mutuo, un prestito. Così facendo, alla consegna del danaro la proprietà dello stesso è passata dalla donna all’uomo. 

venerdì 30 ottobre 2015

A ciascuno il suo



Entra in vigore il 14 novembre 2015 il decreto del ministero della Giustizia 12 agosto 2015 n. 144, che disciplina il «Regolamento recante disposizioni per il conseguimento e il mantenimento del titolo di avvocato specialista, a norma dell’articolo 9 della legge 31 dicembre 2012, n. 247» La nuova normativa costituisce uno strumento importante per la categoria, ma pone non pochi problemi deontologici.
Due allora, i punti che si possono intanto esaminare: i (simili) requisiti per la prima iscrizione in base alla “comprovata esperienza” (articolo 8), e per il suo mantenimento (articolo 11).
A proposito del primo la riflessione non può non tener conto di un altro aspetto cruciale, quello della definizione dei settori di specializzazione: la constatazione che di fronte all’esteso numero di settori più o meno attinenti al diritto civile vi è un’unica “area” per il diritto penale (così come per quello amministrativo). La maggior parte delle controproposte sono state non nel senso di suggerire di “unificare” anche quello del diritto civile, o comunque ridurne i settori come l’eliminazione di quello della “responsabilità civile”. D’altronde è tanto più facile ottenere l’iscrizione per comprovata esperienza, e poi mantenerla, quanto più generico è l’ambito.
Detto questo, sono lecite fin d’ora alcune note a margine del testo pubblicato con particolare attenzione alla rilevanza deontologica della nuova normativa.
In sintesi i requisiti richiesti sono: anzianità di iscrizione all’Albo di otto anni, e (sia ai sensi dell’articolo 8 che dell’articolo 11) numero di “incarichi” fiduciari (anche stragiudiziali, quindi) non inferiore a quindici per anno, ma con esclusione di quegli «affari che hanno ad oggetto medesime questioni giuridiche e necessitano di un’analoga attività difensiva». Quindi, per dire, l’avvocato specialista civilista dovrebbe certamente essere non di “primo pelo” e inserito in una struttura tale da assicurargli un notevole flusso di lavoro settoriale; mentre la verifica delle sue effettive capacità teorico-pratiche è lasciata (nel solo caso dell’articolo 8) al “colloquio” disposto dal Cnf sulla base di“parametri” e dei “criteri” per condurlo non ancora individuati ed eseguiti da un organo apposito nemmeno accennato.
Riflessioni che appaiono quindi non prive di perplessità, di qui la considerazione deontologica:
  • non si operi una moltiplicazione evangelica degli incarichi (nella maggior parte dei casi l’incarico è costituito dalla risoluzione non di una sola, ma di diverse questioni giuridiche),  oppure
  • non ci si metta d’accordo all’interno degli studi per associare fittiziamente il collega nei mandati.
Si potrebbe allora concludere che in materia assuma valore decisivo una verifica deontologica: ma, se fosse possibile ex post, per esempio in occasione di questioni di responsabilità professionale con “premesse” o “strascichi” disciplinari, sarebbe assai difficile pensare che un simile tipo di controllo possa essere esercitato da un organo centrale quale la (eventuale, futura) articolazione del Cnf. Per l’altro aspetto accennato (la visibilità sul mercato dei servizi legali consentita dall’esibizione della qualifica) si può ipotizzare uno scenario apparentemente paradossale: laddove la macro area (oggi, il diritto civile) sia suddivisa in numerosi settori, può essere controproducente sceglierne uno (o, al massimo, due), perché ciò significherebbe lanciare alla potenziale clientela un messaggio informativo tendente a restringere l’offerta. Sarà il caso di tutti quei professionisti che siano ben capaci di prestare una competente assistenza in più di un campo della stessa branca del diritto. Di conseguenza si potrà legittimamente essere specialisti di sole due aree ma grandi esperti di molte di più.
Tutto bene, invece, per chi non ha del suo.

lunedì 28 settembre 2015

Io PECco!



Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra o invii una pec!

La Posta Elettronica Certificata (PEC) è il mezzo informatico che consente di inviare e-mail con valore legale equiparato ad una raccomandata con ricevuta di ritorno, come stabilito dalla vigente normativa (DPR 11 Febbraio 2005 n.68). Attualmente la PEC non è uno standard internazionale ma, un insieme di regole e norme italiane. Inoltre esistono altre tecniche di firma digitale e di tracciamento della consegna analoghe alla PEC ma già da anni disponibili per le e-mails tradizionali ed utilizzate per lo scambio di documenti a livello internazionale previo accordo tra mittente e destinatario (come ad esempio il sistema RFC 3798).Il 19 gennaio 2009, infatti, l'art. 16 del D.L. n. 185 del 2008 ha subito, in fase di conversione in legge, modifiche rilevanti che rendono non più obbligatoria la PEC per cittadini, liberi professionisti e aziende, qualora essi abbiano a disposizione un analogo indirizzo di posta elettronica basato su tecnologie che certifichino data e ora dell'invio e della ricezione delle comunicazioni ed integrità del contenuto delle stesse, garantendo l'interoperabilità con analoghi sistemi internazionali.
La PEC, dunque, pare nata già vecchia e comunque estranea al circuito internazionale: l’ennesimo intervento novellistico del legislatore se ne è finalmente accorto. Inoltre, per quel che più conta ai fini dell’amministrazione della giustizia la PEC ha la sua veridicità nel documentare in modo certo ed inequivocabile la spedizione/invio, con il riscontro, ricevuta/consegna. La PEC si perfeziona solo se sono presenti tutti i requisiti e le modalità esposte nelle grafiche rappresentate. Se c’è una discrepanza, la stessa non ha più validità legale.I maggiori problemi sono la sincronizzazione degli orari, la gestione delle ricevute invio/ricezione e l’appaiamento in orario consequenziale di tutte le ricevute (e quindi non solo di quelle invio/ricezione) come da codifica.

Per gli Avvocati, avere un indirizzo PEC è un obbligo sancito dall’art. 16 comma 7 della L. 2/2009; tale indirizzo deve poi essere anche comunicato al proprio Consiglio dell’Ordine, il quale, a sua volta, provvede a comunicarlo al Ministero della Giustizia attestandolo come unico indirizzo utilizzabile per le comunicazioni da e verso i Tribunali. Il Ministero della Giustizia provvede a sua volta ad inserire tale indirizzo PEC in un registro informatico, consultabile telematicamente chiamato RegInde. L’indirizzo PEC che risulterà comunicato all’Ordine, diventerà dunque l’unico domicilio elettronico di riferimento per l’avvocato nel Processo Telematico (ricezione dei biglietti di cancelleria telematici e deposito degli atti telematici).
L’avvocato sprovvisto di PEC dovrà recarsi in Tribunale presso la/e Cancelleria/e per verificare l’eventuale presenza di comunicazioni a lui indirizzate e relative ai procedimenti nei quali risulti costituito quale difensore di parte.
In materia penale, dalla lettura di tali testi normativi emerge la scelta del mezzo telematico come strumento "normale" per la notifica di atti inerenti a procedimenti penali nei confronti di persona diversa dall'imputato, ivi compreso il suo difensore. Tuttavia, come risulta dal combinato disposto dei commi 1 e 2 dell'art. 51, l'impiego di questa specifica modalità veniva ad essere subordinata all'emanazione, ad opera del Ministro della Giustizia, di un decreto ministeriale, chiamato ad individuare gli Uffici giudiziari dotati di adeguati servizi di comunicazione. In attuazione di quest'ultima previsione era stato emanato, in data 12 settembre 2012, apposito decreto del Ministero della Giustizia. Tale quadro normativo è profondamente mutato per effetto del D.L. 18 ottobre 2012, n. 179, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale il 19 ottobre 2012, n. 45, e in vigore dal successivo 20 ottobre, convertito con modificazioni in L. 17 dicembre 2012, n. 221. Con tale previsione si torna a disporre che, per quanto concerne i procedimenti penali, le notifiche a soggetti diversi dall'imputato sono effettuate via P.E.C. dagli Uffici giudiziari individuati da un apposito decreto del Ministro della Giustizia.Tuttavia, contrariamente a quanto accaduto per i procedimenti civili, non è stata inserita alcuna norma transitoria specificamente dedicata a quegli Uffici per i quali il suddetto decreto era già stato emanato sotto la vigenza del D.L. n. 112 del 2008.Infine è intervenuto l'art. 1, comma 19, punto 1, lett. a) e b), della L. 24 dicembre 2012, n. 228, che ha inserito nell’art. 16, comma 9, del D.L. n. 221 una nuova lett. c-bis), che prevede che le disposizioni che qui interessano (commi da 4 a 8) “acquistano efficacia a decorrere dal 15 dicembre 2014”.La questione giunge pertanto davanti alle SS.UU. che risolvono i dubbi riconoscendo validità legale alle notifiche via pec eseguite al difensore anche prima  del 15 dicembre 2014; qualora gli Uffici fossero già stati autorizzati con decreto ministeriale.
In ambito civilistico, l’obbligo di indicare l’indirizzo di posta elettronica certificata esonera l'avvocato dall’elezione di domicilio quando si trova a dover patrocinare una causa fuori dalla circoscrizione del tribunale cui è assegnato .Lo hanno stabilito le Sezioni Unite della Cassazione, con la sentenza 20 giugno 2012, n. 10143. La Suprema Corte precisato che, stante il mutato contesto normativo che prevede ora in generale l'obbligo per il difensore di indicare, negli atti di parte, l'indirizzo di posta elettronica certificata, la domiciliazione ex lege presso la cancelleria dell'autorità giudiziaria innanzi alla quale è in corso il giudizio si applicherà soltanto se il difensore, non adempiendo all'obbligo prescritto dall'art. 125 c.p.c., non abbia indicato l'indirizzo di posta elettronica certificata comunicato al proprio ordine. Ovviamente, questo bellagio, fino alla prima richiesta copie dal fascicolo di causa dove ci troveremo davanti al bivio tra l’intraprendere un viaggio per nuovi lidi o (meglio) eleggere domicilio presso l’amico devoto domiciliatario.