Ossia
il coccio che il presidente deponeva per ultimo nell’urna dei Cinquecento,
l’organo legislativo nella Costituzione di Clistene, che tra l’altro esercitava
anche la funzione giurisdizionale. Tale definizione era data sull’esempio del
leggendario voto di Pallade Atena in favore di Oreste, ricordato da Eschilo
nelle Eumenidi, che era stato giudicato colpevole di matricidio dalla
maggioranza dei giurati del tribunale dell'Areopago. Il voto di Atena
determina l'assoluzione di Oreste. Nel diritto romano imperiale, l'imperator
aveva la stessa prerogativa: il suo voto a favore del reo (detto, appunto,
calculus Minervae) determinava l'assoluzione, se la condanna era stata votata
da una maggioranza ristretta, costituita dalla metà più uno dei giurati Nel
mondo moderno la funzione del Presidente con voto decisivo in caso di parità è
garantita in vari ordinamenti, tra i quali il Senato degli Stati uniti
d’America. Nell’ ordinamento italiano contemporaneo, alla deliberazione
collegiale, si provvede secondo le regole indicate dall'art. 527 c.p.p..
Il
collegio, sotto la direzione del presidente vota, dopo aver espresso le proprie
ragioni, su ciascuna questione ed il presidente raccoglie i voti. Se nella
votazione sull'entità della pena o della misura di sicurezza si manifestano più
di due opinioni, i voti espressi per la pena o la misura di maggiore gravità si
riuniscono a quelli per la pena e la misura gradatamente inferiore, fino a che
venga a risultare la maggioranza. In ogni altro caso, qualora vi sia parità di
voti, prevale la soluzione più favorevole all'imputato. Il legislatore, nel
disciplinare la formazione della volontà dell'organo giurisdizionale
collegiale, ha seguito il criterio della deliberazione a maggioranza in base al
quale le dichiarazioni singole conflueiscono nell'unica dichiarazione. Senonchè
la tutela dell'interesse alla formazione dell'atto collegiale non trova una
completa attuazione nel principio di maggioranza poiché negli organi collegiali
paritari la formazione di una maggioranza risulta impossibile allorquando si
manifestino nel collegio più opinioni e sussista parità di voti.
Di qui la
necessità di una ulteriore regola per tutelare il predetto interesse. Orbene,
mentre abitualmente il legislatore dispone che, in caso di parità di voti,
debba prevalere la tesi per cui ha votato il presidente del collegio, tale
criterio è stato abbandonato, in attuazione del favor rei, allorchè si tratti
dell'emanazione di una sentenza penale, stabilendo che debba prevalere la
soluzione più favorevole all'imputato. Questa la disciplina sulla carta ma la
difficoltà dell’analisi della funzione di giudizio sta nella consapevolezza che
nel momento decisionale puro la logica del giudicante opera nel senso di
ridurre la distanza tra il probabile e l’improbabile fino al dilemma di
decidere senza, comunque, escludere che
la realtà dei fatti sia stata diversa. Si individua, in sostanza, un punto di
convincimento che sfugge alla logica e si affida al “mutevole cuore del giudice”
come lo definiva Calamandrei, lasciando alla motivazione la giustificazione
posteriore di quanto pronunciato.
In tale contesto si colloca la regola di
giudizio prevista dall’art. 530 c.p.p. che prevede una decisione sul fatto incerto discendere dalle
valutazioni di un giudicante che in situazione di dubbio è obbligato ad
assolvere. Le specifiche regole di valutazione processuale evidenziano un
sistema normativo che rifiuta “intuizionismo giudiziario” contrapponendolo alle
prove legali disposte dal legislatore. Il ragionamento mentale del giudice non
è, infatti, quello di verificare se puo’ assolvere ma, al contrario, deve
partire dalla possibilità di una condanna, anche in forza del ruolo che spetta
all’art. 530, comma 2, c.p.p. che costituisce una regola di giudizio e non un’autonoma
formula di proscioglimento.
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