Entra in vigore il 14 novembre 2015 il decreto del ministero della Giustizia 12 agosto 2015 n. 144, che disciplina il
«Regolamento recante disposizioni per il conseguimento e il mantenimento del
titolo di avvocato specialista, a norma dell’articolo 9 della legge 31 dicembre
2012, n. 247» La nuova normativa costituisce uno strumento importante per la
categoria, ma pone non pochi problemi deontologici.
Due allora, i punti che si possono
intanto esaminare: i (simili) requisiti per la prima iscrizione in base alla
“comprovata esperienza” (articolo 8), e per il suo mantenimento (articolo 11).
A proposito del primo la riflessione
non può non tener conto di un altro aspetto cruciale, quello della definizione
dei settori di specializzazione: la constatazione che di fronte all’esteso
numero di settori più o meno attinenti al diritto civile vi è un’unica “area”
per il diritto penale (così come per quello amministrativo). La maggior parte
delle controproposte sono state non nel senso di suggerire di “unificare” anche
quello del diritto civile, o comunque ridurne i settori come l’eliminazione di
quello della “responsabilità civile”. D’altronde è tanto più facile ottenere
l’iscrizione per comprovata esperienza, e poi mantenerla, quanto più generico è
l’ambito.
Detto questo, sono lecite fin d’ora
alcune note a margine del testo pubblicato con particolare attenzione alla
rilevanza deontologica della nuova normativa.
In sintesi i requisiti richiesti sono:
anzianità di iscrizione all’Albo di otto anni, e (sia ai sensi dell’articolo 8
che dell’articolo 11) numero di “incarichi” fiduciari (anche stragiudiziali,
quindi) non inferiore a quindici per anno, ma con esclusione di quegli «affari
che hanno ad oggetto medesime questioni giuridiche e necessitano di un’analoga
attività difensiva». Quindi, per dire, l’avvocato specialista civilista
dovrebbe certamente essere non di “primo pelo” e inserito in una struttura tale
da assicurargli un notevole flusso di lavoro settoriale; mentre la verifica
delle sue effettive capacità teorico-pratiche è lasciata (nel solo caso
dell’articolo 8) al “colloquio” disposto dal Cnf sulla base di“parametri” e dei
“criteri” per condurlo non ancora individuati ed eseguiti da un organo apposito
nemmeno accennato.
Riflessioni che appaiono quindi non
prive di perplessità, di qui la considerazione deontologica:
- non si operi una moltiplicazione evangelica degli incarichi (nella maggior parte dei casi l’incarico è costituito dalla risoluzione non di una sola, ma di diverse questioni giuridiche), oppure
- non ci si metta d’accordo all’interno degli studi per associare fittiziamente il collega nei mandati.
Si potrebbe allora concludere che in materia assuma valore decisivo una
verifica deontologica: ma, se fosse possibile ex post, per esempio in
occasione di questioni di responsabilità professionale con “premesse” o
“strascichi” disciplinari, sarebbe assai difficile pensare che un simile tipo
di controllo possa essere esercitato da un organo centrale quale la (eventuale,
futura) articolazione del Cnf. Per l’altro
aspetto accennato (la visibilità sul mercato dei servizi legali consentita
dall’esibizione della qualifica) si può ipotizzare uno scenario apparentemente
paradossale: laddove la macro area (oggi, il diritto civile) sia suddivisa in
numerosi settori, può essere controproducente sceglierne uno (o, al massimo,
due), perché ciò significherebbe lanciare alla potenziale clientela un
messaggio informativo tendente a restringere l’offerta. Sarà il caso di
tutti quei professionisti che siano ben capaci di prestare una competente
assistenza in più di un campo della stessa branca del diritto. Di conseguenza
si potrà legittimamente essere specialisti di sole due aree ma grandi
esperti di molte di più.
Tutto bene, invece, per chi non ha
del suo.