Uno slogan natalizio scritto su
un cartello pubblicitario del marchio di gioielli Pandora ha sollevato una
questione antica come l'omonimo mito e, inevitabilmente, ci ha portato a
riflettere sul tema delle pubblicità discriminatorie nei confronti delle donne.
Le pubblicità sessiste più diffuse sono
quelle «che fanno leva sul richiamo sessuale,
abbinando un'immagine provocante a un prodotto. Si cerca di fare una specie di
transfert dall'impulso sessuale a quello all'acquisto. Ma questa non è la sola
forma di sessismo. Esiste anche la tendenza a far diventare la donna stessa
parte del prodotto, o a usare il suo corpo come un supporto: c'è la donna che
diventa di plastilina, o quella che è un vassoio per il sushi o la base per un
paralume. A volte viene marchiata con un logo. Sono tutte cose che no n
accadono con il corpo maschile». Da schermi o cartelloni, ovunque ci si trovi,
si affacciano mamme sorridenti che servono a tavola, lavano pavimenti, cercano
strategie per combattere cuscinetti adiposi o rughe o cattivi odori, oppure
modelle super sexy come oggetti del desiderio ammiccanti per un pubblico
maschile, per non parlare dell’head-line ‘Te la diamo gratis’ per pubblicizzare
macchinette da caffè, assistenza tecnica per pc, camere matrimoniali, corsi di
inglese estivi, ecc. (con ampio ricorso, in tutti i casi, a ragazze svestite e
provocanti).
È una tematica entrata nel dibattito pubblico. Una frangia
dell’industria pubblicitaria - l’Art Directors Club Italiano, il club dei
creativi pubblicitari – si era mobilitata, pubblicando, nel 2011, un Manifesto Deontologico in cui si giudicava "profondamente scorretto
ridurre i corpi umani a oggetto sessuale da abbinare a un prodotto in modo
incongruo e pretestuoso". Nel 2013, lo stesso ADCI ha lanciato una petizione pubblica, in cui chiede che le indicazioni europee
siano recepite e tradotte in norme semplici e vincolanti "tali
da permettere di scoraggiare e sanzionare con maggior incisività la pubblicità
sessista”. In Italia, gli strumenti legislativi e le autorità cui rivolgersi?
Il riferimento principale è un organo di autoregolamentazione, lo IAP, Istituto dell’Autodisciplina Pubblicitaria, cui aderiscono aziende e associazioni di
settore, agenzie e concessionarie di pubblicità, per capirci anche Mediaset,
Rai o Sky. Al Giurì, l’autorità giudicante, possono rivolgersi anche i comuni
cittadini per denunciare contenuti pubblicitari a vario titolo inappropriati o
offensivi verso specifiche categorie o gruppi sociali. Basandosi su un Codice
di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale, il Giurì può bloccare e far
ritirare queste campagne.
La fragilità di questo meccanismo è data dall’impossibilità
di comminare sanzioni pecuniarie o adottare altre misure che siano veramente
deterrenti per chi infrange il Codice di condotta che essi si sono dati; in
secondo luogo, si registra un elevatissimo grado di soggettività e
discrezionalità nell’accogliere le lamentele: la natura sessista o in altro
modo discriminatoria dei messaggi portati all’attenzione delle autorità
competenti non sempre viene riconosciuta dalle stesse, complice anche il
registro umoristico/ironico spesso utilizzato dalla pubblicità, che
contribuisce alla legittimazione e accettabilità sociale di certe immagini. Dall’altro
lato, in Italia, manca completamente una vera e propria prescrizione con una
nomenclatura molto dettagliata della tipologia di infrazioni perpetrate sulla
base del gender. Quest’ultima potrebbe essere
un esempio positivo cui tendere per una realtà che si vorrebbe competitiva e
evoluta come l’Europa.