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domenica 28 gennaio 2018

Consigli per gli acquisti!



Uno slogan natalizio scritto su un cartello pubblicitario del marchio di gioielli Pandora ha sollevato una questione antica come l'omonimo mito e, inevitabilmente, ci ha portato a riflettere sul tema delle pubblicità discriminatorie nei confronti delle donne.  Le pubblicità sessiste più diffuse sono quelle «che fanno leva sul richiamo sessuale, abbinando un'immagine provocante a un prodotto. Si cerca di fare una specie di transfert dall'impulso sessuale a quello all'acquisto. Ma questa non è la sola forma di sessismo. Esiste anche la tendenza a far diventare la donna stessa parte del prodotto, o a usare il suo corpo come un supporto: c'è la donna che diventa di plastilina, o quella che è un vassoio per il sushi o la base per un paralume. A volte viene marchiata con un logo. Sono tutte cose che no n accadono con il corpo maschile». Da schermi o cartelloni, ovunque ci si trovi, si affacciano mamme sorridenti che servono a tavola, lavano pavimenti, cercano strategie per combattere cuscinetti adiposi o rughe o cattivi odori, oppure modelle super sexy come oggetti del desiderio ammiccanti per un pubblico maschile, per non parlare dell’head-line ‘Te la diamo gratis’ per pubblicizzare macchinette da caffè, assistenza tecnica per pc, camere matrimoniali, corsi di inglese estivi, ecc. (con ampio ricorso, in tutti i casi, a ragazze svestite e provocanti). 
È una tematica entrata nel dibattito pubblico. Una frangia dell’industria pubblicitaria -  l’Art Directors Club Italiano, il club dei creativi pubblicitari – si era  mobilitata, pubblicando, nel 2011, un Manifesto Deontologico in cui si giudicava "profondamente scorretto ridurre i corpi umani a oggetto sessuale da abbinare a un prodotto in modo incongruo e pretestuoso". Nel 2013, lo stesso ADCI ha lanciato una petizione pubblica, in cui chiede che le indicazioni europee siano recepite e tradotte in norme semplici e vincolanti "tali da permettere di scoraggiare e sanzionare con maggior incisività la pubblicità sessista”. In Italia, gli strumenti legislativi e le autorità cui rivolgersi? Il riferimento principale è un organo di autoregolamentazione, lo IAP, Istituto dell’Autodisciplina Pubblicitaria, cui aderiscono aziende e associazioni di settore, agenzie e concessionarie di pubblicità, per capirci anche Mediaset, Rai o Sky. Al Giurì, l’autorità giudicante, possono rivolgersi anche i comuni cittadini per denunciare contenuti pubblicitari a vario titolo inappropriati o offensivi verso specifiche categorie o gruppi sociali. Basandosi su un Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale, il Giurì può bloccare e far ritirare queste campagne.  
La fragilità di questo meccanismo è data dall’impossibilità di comminare sanzioni pecuniarie o adottare altre misure che siano veramente deterrenti per chi infrange il Codice di condotta che essi si sono dati; in secondo luogo, si registra un elevatissimo grado di soggettività e discrezionalità nell’accogliere le lamentele: la natura sessista o in altro modo discriminatoria dei messaggi portati all’attenzione delle autorità competenti non sempre viene riconosciuta dalle stesse, complice anche il registro umoristico/ironico spesso utilizzato dalla pubblicità, che contribuisce alla legittimazione e accettabilità sociale di certe immagini. Dall’altro lato, in Italia, manca completamente una vera e propria prescrizione con una nomenclatura molto dettagliata della tipologia di infrazioni perpetrate sulla base del gender.  Quest’ultima potrebbe essere un esempio positivo cui tendere per una realtà che si vorrebbe competitiva e evoluta come l’Europa.



domenica 14 gennaio 2018

Walfie e Fisco



Il termine nullatenente viene utilizzato per identificare un soggetto che non percepisce redditi e non ha un proprio patrimonio. In pratica, il nullatenente è colui che, al tempo stesso, non ha né un lavoro, né è titolare di altre attività patrimoniali (un immobile), o finanziarie (un conto corrente, altri titoli). Insomma, si tratta di un soggetto nei cui confronti è impossibile avviare un pignoramento perché la procedura risulterebbe negativa e senza esiti fruttuosi. Tuttavia, la questione non è sempre così banale: quante volte abbiamo sentito dire che una persona è nullatenente quando poi la stessa circola serenamente in un auto di grossa cilindrata o vivere in appartamenti di lusso: ecco che allora il concetto di nullatenenza assume un carattere relativo. Per questo soggetto, però, la vanità sui social network può costare cara. I rischi sono connessi a eventuali accertamenti fiscali, condanne al pagamento di assegni di mantenimento alti fino a processi penali per frodi fiscali. Le pagine dei social network, infatti, sono producibili in giudizio e, salvo prova contraria, il semplice log-in può attribuire paternità certa ai contenuti pubblicati da quel profilo utente. È vero che lo screenshot da solo non basta, occorre dare data certa al contenuto postato, ma unito ad altri elementi può essere valutato dal giudice ed avere serie conseguenze fiscali, civili e anche penali per l'utente in cerca di visibilità. 
D'altra parte la Cassazione lo aveva stabilito da subito: Facebook è un luogo aperto al pubblico, a prescindere dal numero di amici e dalle impostazioni privacy del profilo dell'utente (Corte di cassazione 11.07.2014 n.37596). C’è chi, sul web, pubblicizza la propria intera esistenza, o meglio la versione social di una vita che, il più delle volte, è normale o forse anche noiosa. Attenzione però a pubblicizzare troppo il proprio (gonfiato) tenore di vita ed il proprio status stellato su facebook e su instagram. Oltre all’invidia di chi non può permettersi tanto sfarzo, coloro che ostentano troppo sui social attireranno immancabilmente i controlli del fisco. Non è raro, infatti, che l’ostentazione del lusso sui social diventi una prova per il Fisco e per i Tribunali, ai fini della contestazione dell’evasione e di frodi fiscali. Di recente, infatti, il fisco ha preso di mira proprio i social network, primi fra tutti facebook e instagram. È bene, quindi, mantenere i “piedi per terra”. Al contrario si potrebbero attirare non solo le ira funeste della rete (soprattutto in un periodo di crisi come questo), ma – ciò che è peggio – sgraditi controlli del fisco. Ciò in quanto, le dichiarazioni fatte “on line” dal contribuente costituiscono, da un punto di vista giuridico, delle vere e proprie «confessioni» che consentono di avviare l’accertamento fiscale. Le pagine dei social network, infatti, sono producibili in giudizio. Al riguardo, infatti, gli esempi di cui si compone la giurisprudenza sono moltissimi ed eclatanti, soprattutto negli ultimi tempi. Secondo la Corte d’Appello di Brescia, Corte con la sent. n. 1664 del 1.12.2017 ha addermato che: «La documentazione estratta da Facebook evidenzia un’attività che è molto probabilmente fonte di redditi non dichiarati». Per non parlare del marito che per negare il mantenimento alla moglie sostiene di essere costretto a vivere ai limiti della sopravvivenza. 
Peccato però che su Facebook pubblica foto di un’intensa e inequivocabile vita sociale con cene, aperitivi, colazioni e feste fuori. L’uomo oltre agli apprezzamenti sui social si è guadagnato una bella condanna a pagare non solo il mantenimento, ma anche le spese processuali ( Corte di appello di Ancona, sent. n. 331 del 28.02.2017). E poi ancora l’imprenditore che dichiara di guadagnare poco più di 11mila euro annui e posta sui social le foto delle vacanze in alberghi a 4 stelle a Madonna di Campiglio, moto e auto di lusso. Il giudice di tutta risposta, ritenendo fasulle le sue dichiarazioni dei redditi, lo condanna a pagare l’assegno divorzile in favore della moglie (Tribunale di Pesaro, sent. n. 295del 26 marzo 2015). Ed ecco che, oltre all’ex moglie, anche il fisco accende il suo redditometro sul contribuente stabilendo che il nullatenente effettui pagamenti solo in contanti evitando mezzi tracciabili, ma anche in questo caso con il “redditometro” e con l’elenco “delle operazioni rilevanti ai fini Iva“, l’Agenzia potrebbe risalire ad acquisti effettuati e capire quali sono i redditi che effettivamente questo soggetto percepisce “in nero“. In questo caso, solitamente parte anche un’indagine della Guardia di Finanza.



martedì 19 settembre 2017

Data don't breach!



Interessante esperimento quello che negli USA ha portato a creare un database contenente informazioni relative ad un centinaio di consumatori inserendo dati inventati: nome, residenza, e-mail, telefono. Un’anagrafica fittizia ma studiata con attenzione affinché risultasse credibile anche ad un occhio più attento: nomi ricorrenti negli USA, indirizzi e-mail sensati rispetto al nome, numeri di telefono che corrispondono alla zona di residenza, e così via. Inoltre, i tecnici della FTC hanno inserito, per ciascuna stringa individuale, dati relativi ad uno tra tre tipici strumenti di pagamento elettronico: carta di credito, portafoglio bitcoin, ed un online payment service non meglio specificato (potrebbe trattarsi di Paypal o provider simile).Ci sono voluti solo 9 minuti prima che i malfattori che frequentano la rete provassero ad impiegare per fini illegali le identità altrui. In totale, sono stati effettuati 1.200 tentativi di utilizzo illecito dei dati. La Polizia Postale italiana dice che i furti d’identità spesso non vengono scoperti, o magari lo sono solo dopo 12-18 mesi. Perché spesso non ce ne accorgiamo nemmeno: entrano nel nostro pc, nel nostro profilo social e non lo vediamo. Una versione evoluta di ricerca credenziali è il vishing, in cui la mail ti chiede, per fregarti meglio, di chiamare un finto call center, che ti chiederà a voce quei dati. I criminali selezionano le vittime e ne osservano le abitudini, imparano chi sono e cosa fanno tramite tutte le informazioni che lasciano sui social network. Così, quando mandano la mail, sono più credibili. Come il trashing (sì, potrebbero frugare nella carta che butti al riciclo e trovare tutti i tuoi dati bancari su quell’estratto conto che hai soltanto appallottolato…). Il fenomeno del c.d. “identity theft”, ovvero del furto di identità in rete è per lo più riconducibile a due principali fattori: la errata custodia delle credenziali di autenticazione e la creazione di un account falso da parte di un terzo (c.d. "fake").
Il problema sta nel fatto che il social network, al momento della registrazione, non fornisce all'utente alcuno strumento in grado di potergli consentire una immediata capacità di individuazione dell'illecito, e quando ne viene a conoscenza, è spesso ormai troppo tardi.
 Pur non corrispondendo “materialmente” ad una sostituzione della persona, in mancanza di una fattispecie incriminatrice specifica, il furto di identità in rete viene ricondotto dalla giurisprudenza di legittimità nell'ambito del reato di cui all'art. 494 c.p., relativo alla “sostituzione di persona Sul punto, la Cassazione si è pronunciata più volte ritenendo che la condotta di chi crea ed utilizzi account o caselle di posta elettronica servendosi dei dati anagrafici di un terzo soggetto, inconsapevole, è in grado di indurre in errore, non il fornitore del servizio, bensì l'intera platea di utenti, i quali, convinti di interloquire con un soggetto, si troveranno ad interagire, invece, con una persona diversa da quella che a loro viene fatta credere, integrando così la fattispecie di reato prevista dalla norma (Cass. Pen. n. 46674/2007). L'applicabilità dell'art. 494 c.p. ricorre altresì laddove viene creato un preciso profilo al quale è associata una reale immagine della persona offesa. A tal proposito, gli Ermellini hanno ritenuto integrata la figura di reato in esame nella condotta del soggetto che realizzi e si avvalga di un determinato profilo su un social network che riproduca la foto della vittima (persona offesa) ascrivendo alla stessa una descrizione degradante e, attraverso tale identità, utilizzi il sito comunicando con gli altri iscritti e condividendone i contenuti (Cass. Pen. n. 25774/2014).Giova osservare, da ultimo, che il legislatore, con d.l. n. 93/2014 (convertito dallal. n. 119/2014) ha introdotto, per la prima volta, nel codice penale, il concetto di “identità digitale”.  Infatti, l'art. 9 del citato decreto, rubricato  Frode informatica commessa con sostituzione di identità digitale” ha modificato l'art. 640-ter c.p., con l'inserimento di un terzo comma, ove il legislatore ha previsto la pena della reclusione da due e sei anni e la multa da 600,00 euro a 3.000,00 euro nel caso in cui il fatto sia commesso mediante furto o indebito utilizzo dell'identità digitale in danno di uno o più soggetti; trattasi di un delitto per il quale è prevista la querela della persona offesa salvo che ricorra l'ipotesi di cui al 2° o 3° comma dell'art. 640-ter ovvero altra circostanza aggravante.
Emblematica in tal senso è stata la vicenda che aveva coinvolto una donna di Trieste che, subito dopo essere stata licenziata dalla sua datrice di lavoro, ha inteso vendicarsi inserendo le iniziali del nome ed il numero di telefono della stessa in una chat per incontri a sfondo sessuale, facendole così ricevere, anche in ore notturne, molteplici chiamate e messaggi provenienti da vari utenti della chat interessati ad incontri o a conversazioni di tipo erotico. Condannata per il reato di sostituzione di persona, l'autrice del "furto" giungeva fino in Cassazione, ma i Giudici del Palazzaccio rigettavano il ricorso in quanto "l'inserimento in una chat telematica di incontri personali, del numero di utenza cellulare di altra persona associato ad un nickname pure a costei riferibile, al fine di danneggiarla facendola apparire sessualmente disponibile, integra il reato di cui all'art. 494 c.p., nella modalità dell'attribuzione di un falso nome". Nelle motivazioni della sentenza in esame, il Giudice evidenzia una riflessione in merito alla natura dalla norma applicata. La tutela fornita dall'art. 494 del Codice Penale, infatti, dovendo intervenire in presenza di "inganni relativi alla vera essenza di una persona o alla sua identità o ai suoi attributi reali", potendo questi per la loro collocazione in Rete evidentemente oltrepassare la ristretta cerchia di uno specifico destinatario, non è rivolta in modo esclusivo alla fede privata e alla tutela civilistica del diritto al nome, ma ha ad oggetto in linea più ampia la pubblica fede. Ora lo sai.