E tempo di Europei e l’Italia debutta domani 13 giugno contro il Belgio. Per
questa ragione sembra interessante approfondire il tema della scriminante dell’accettazione del rischio. Quanto a noi italiani, Winston Churchill
disse:“gli Italiani perdono le guerre come se fossero partite di calcio e le
partite di calcio come se fossero guerre”. Tanta foga si manifestò in una
partita di calcio del campionato sardo, quando un giocatore della squadra
dell'Alghero, in un'azione di gioco, al fine d'interrompere l'azione avviata
dall’avversario della squadra del Tempio, il quale, attorno al 48° minuto del
secondo tempo, impossessatosi del pallone aveva dato vita ad un veloce
contropiede della squadra ospitata, spingendo davanti a sé la sfera, con
l'intento di guadagnare prestamente l'area di rigore, attingeva, con eccessiva violenza,
con un calcio la gamba dell'avversa rio, causandogli lesioni gravi, consistite
nella frattura della tibia sinistra. Una recente pronuncia (Cass. Pen., Sez. IV,sentenza n. 9559, decisa il 26 novembre 2015, depositata in Cancelleria l'8marzo 2016) in tema di reato colposo prende le mosse proprio da questo
avvenimento. Com’è noto, la Federazione Italiana Giuoco Calcio è titolare di
una potestà disciplinare sui propri associati in relazione ad una prospettiva
funzionale al perseguimento dei propri fini istituzionali.
Tale potere della
federazione discende dagli ampi margini di autonomia riconosciuti
all’ordinamento sportivo dall’ordinamento giuridico generale. Il problema che
si pone è, appunto, quello dell’individuazione del confine entro il quale l’associato,
in nome della sua contemporanea appartenenza a quell’ordinamento particolare,
può essere privato ovvero, sotto diverso angolo visuale, è tenuto a rinunciare
ai diritti allo stesso spettanti quale componente dell’ordinamento giuridico
statuale. I problemi sorgono nell’ambito degli sport cosiddetti “a contatto
eventuale” nel senso che il contatto fisico, pur non costituendo tratto
caratterizzante il gioco, è ammesso, seppur entro determinati limiti. Premesso
che, ovviamente, il quantum di violenza consentita o tollerata muta al variare
delle finalità tecniche della specifica disciplina sportiva presa in
considerazione, è possibile osservare come, normalmente, un fatto che se
commesso al di fuori dell’esercizio dell’attività agonistica costituirebbe, di
per sé, reato, diviene lecito e, comunque, consentito ove si verifichi in sede
sportiva ed all’interno del quadro costituito dalle regole del gioco. Con la
sentenza n. 9559 dell'8 marzo 2016, la Cassazione penale, sezione quarta,
seguendo l'opinione più diffusa e convincente in materia, aderisce al principio
enunciato, escludendo invece l'operatività di una tale scriminante nei seguenti
casi:
a) quando si constati l'assenza di collegamento funzionale tra l'evento lesivo e la competizione sportiva;
b) quando la violenza esercitata risulti sproporzionata in relazione alle concrete caratteristiche del gioco e alla natura e rilevanza dello stesso (a tal ultimo riguardo, un conto è esercitare un agonismo, anche esacerbato, allorquando sia in palio l'esito di una competizione di primario rilievo, altro conto quando l'esito non abbia una tale importanza o, ancor meno, se si tratti di partite amichevoli o, addirittura, di allenamento);
c) quando la finalità lesiva costituisce prevalente spinta all'azione, anche ove non consti, in tal caso, alcuna violazione delle regole dell'attività".
a) quando si constati l'assenza di collegamento funzionale tra l'evento lesivo e la competizione sportiva;
b) quando la violenza esercitata risulti sproporzionata in relazione alle concrete caratteristiche del gioco e alla natura e rilevanza dello stesso (a tal ultimo riguardo, un conto è esercitare un agonismo, anche esacerbato, allorquando sia in palio l'esito di una competizione di primario rilievo, altro conto quando l'esito non abbia una tale importanza o, ancor meno, se si tratti di partite amichevoli o, addirittura, di allenamento);
c) quando la finalità lesiva costituisce prevalente spinta all'azione, anche ove non consti, in tal caso, alcuna violazione delle regole dell'attività".
Si esclude, in particolare, la possibilità di invocare la scriminante del
consenso dell'avente diritto, di cui all'art. 50 cod. pen., in quanto non può
giungere "fino a giustificare lesioni irreversibili dell'integrità fisica
e financo (in alcune discipline) la morte"; parimenti quella
dell'esercizio del diritto, ex art. 51 cod. pen., la quale "non
consentirebbe di escludere dall'area della penale responsabilità tutte quelle condotte
che, pur commesse in violazione del regolamento che disciplina la singola
disciplina sportiva, non risultino esuberare l'area del rischio
accettato". Costituisce, infatti, secondo la sentenza in esame, un sapere
largamente condiviso "la constatazione che l'esercizio, specie con i
caratteri agonistici delle gare di maggior rilievo, di una disciplina sportiva
che implichi l'uso necessario (es. pugilato, lotta, ecc.) o anche solo
eventuale (calcio, rugby, pallacanestro, pallanuoto, ecc.) della forza fisica,
costituisce un'attività rischiosa consentita dall'ordinamento, per plurime
ragioni, a condizione che il rischio sia controbilanciato da adeguate misure
prevenzionali, sia sotto forma di regole precauzionali, che dall'imposizione di
obblighi di cure e trattamento a carico delle società sportive operanti".
Si è inoltre specificato che "l'area consentita è delimitata dal rispetto
delle regole del gioco, la violazione delle quali, peraltro, deve essere
valutata in concreto, con riferimento alle condizioni psicologiche dell'agente,
il cui comportamento scorretto, travalicante, cioè, quelle regole, può essere
la colposa, involontaria evoluzione dell'azione fisica legittimamente esplicata
o, al contrario, la consapevole e dolosa intenzione di ledere l'avversario,
approfittando della circostanza del gioco".
Nella fattispecie in esame
l'infortunio è maturato in un frangente di gioco particolarmente intenso (gli
ultimi minuti dell'incontro di una partita di calcio del campionato serie
Eccellenza). L'atto era manifestamente indirizzato ad interrompere l'azione di
contropiede della squadra avversaria, mediante il tentativo di impossessarsi
regolarmente del pallone. La condotta del calciatore, giudicato colpevole dal
giudice di merito del reato di cui all'art. 590, commi 1 e 2 c.p., viene
ritenuta invece dalla Cassazione meritevole di censura solo nell'ambito
dell'ordinamento sportivo, "non già perché smodatamente violenta (la
pienezza agonistica qui era giustificata dal contesto dell'azione, dal momento
di essa e dagli interessi in campo), bensì perché, mal calcolando la
tempistica, invece che cogliere il pallone, aveva finito per colpire la gamba
dell'avversario che già aveva allungato la sfera in avanti; ma certamente non
sconfina dal perimetro coperto dalla scriminante" atipica
dell'accettazione del rischio.
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