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sabato 2 maggio 2020

IL CONGIUNTO?!?



Da lunedì 4 maggio le prime riaperture: ripartiranno, tra gli altri, le imprese di costruzioni, le
industrie manifatturiere, estrattiva, automobilistica, tessile e del vetro. Via libera anche alla fabbricazione dei mobili e al commercio all'ingrosso funzionale.
Per quanto riguarda la mobilità delle persone, si potrà tornare a muoversi da un Comune all'altro entro la stessa Regione per motivi di lavoro, salute o "necessità e urgenza". Tra le autorizzazioni previste dal Decreto, anche "gli spostamenti per incontrare congiunti, purché venga rispettato il divieto di assembramento e il distanziamento e vengano utilizzate protezioni delle vie respiratorie".
Ma cosa s'intende per congiunti?
Il termine congiunto esiste certamente nella lingua italiana ma nel diritto trova rara ospitalità e compare solo nel diritto penale. 
Solo all’articolo 307 del codice penale, secondo cui i prossimi congiunti sono gli ‘ascendenti, discendenti, coniuge, la parte di un’unione civile tra persone dello stesso sesso, fratelli, sorelle, gli affini nello stesso grado, gli zii e i nipoti’”. In questo elenco non sono presenti né i cugini, né gli amici, né i fidanzati. Sembra rimangono escluse tutte quelle persone che hanno un legame stabile, ma non certificato né da un matrimonio né da una forma di unione civile, questo potrebbe ledere il principio di uguaglianza, intesa come uguale possibilità di godere di uguali diritti anche se non si è formalizzata un’unione.
Dopo la pubblicazione del decreto, molti giuristi hanno argomentato che una sentenza della Suprema Corte (46351/2014) ha stabilito che anche un fidanzato è da considerarsi un congiunto, cioè qualcuno con cui si ha un solido e duraturo legame affettivo a “prescindere dall’esistenza di rapporti di parentela o affinità giuridicamente rilevanti come tali”. In seguito alle critiche, in una nota del 27 aprile Palazzo Chigi ha chiarito che i congiunti sono “parenti e affini, coniuge, conviventi, fidanzati stabili, affetti stabili”. Ma la discussione si è spostata quindi sul concetto di “affetto stabile” e sulla possibilità di dimostrare “la stabilità” di un rapporto. Se si ammette di estendere il concetto di congiunti a qualsiasi relazione affettiva o amichevole, la norma sarebbe svuotata di contenuto, perché non vi sarebbe evidentemente più alcun limite al suo perimetro applicativo.
Quindi, presupponendo che il legislatore non abbia voluto questo risultato, pare di doversi concludere che chi ha relazioni affettive “non giuridicamente strutturate” debba pazientare ancora un po’.
In questo susseguirsi di norme incomplete ed ambigue, nello stendere concetti giuridici come lenzuola ed aggettivi qualificanti come elastici: si pensi all'analisi del termine "affetti stabili". In tutto questo un'associaizone improbabile d'idee ma nella medesima tragicomicità della commedia all'italiana del black humour mi è tornato alla mente il film "il vedovo".
Diretto nel 1959 da Dino Risi, e da lui stesso sceneggiato assieme a Rodolfo Sonego, Fabio Carpi, Sandro Continenza e Dino Verde, Il vedovo vede protagonisti due straordinari attori come Alberto Sordi e Franca Valeri. I due sono marito e moglie: lei è Elvira Almiraghi, una ricchissima e snobissima milanese, lui, Alberto Nardi, il solito cialtrone romano che lavora nell'azienda della famiglia della donna, sogna improbabili progetti imprenditoriali regolarmente fallimentari, e viene costantemente apostrofato dalla moglie con un epiteto entrato nella storia: "cretinetti". Stanco di essere vessato, e pieno di debiti, Alberto ordisce un piano per uccidere Elvira ed ereditare la sua fortuna: ma, ovviamente, le cose non andranno esattamente come aveva immaginato. Ai tempi in cui il film è stato girato i legami non erano solo stabili ma anche indissolubili perché il vincolo matrimoniale e quindi le unioni erano destinate a durare usque mortem per necessità.

A chi non l'avesse visto sottolineo che la battuta cult del film è  cosa fai cretinetti, pensavi fossi morta? Lui, Alberto Nardi (Sordi) è n romano che si sforza di parlare in milanese ("Lambertoni! Cusa fa a Milàn con ‘stu cald?") e un totale imbecille che infila un pasticcio e un debito dietro l’altro. Sordi-Nardi ha un sogno: restare vedovo per ereditare. Il film inizia proprio con questo sogno. Nardi-Sordi sta passeggiando con il suo contabile, il marchese Stucchi, e gli racconta di aver sognato che la moglie era morta e che ai funerali, celebrati da padre Agostino, tutti piangevano e lui rideva: "Poi, mentre calavano la bara giù nella fossa, ho sentito come un colpetto qui, dietro la nuca, tac! Anche abbastanza forte. Credevo fosse padre Agostino, e invece mi sono svegliato nel mio letto. Era mia moglie che mi diceva: cos’hai cretinetti, ridi nel sonno?".


domenica 1 dicembre 2019

Il Rosso non è solo il colore del Natale




«Non vi chiediamo una condanna severa, pesante, esemplare. Non ci interessa la condanna – esordì Lagostena BassiNoi vogliamo che in quest’aula ci sia resa giustizia, che è una cosa diversa. Che cosa intendiamo quando chiediamo giustizia come donne? Chiediamo che anche nelle aule dei Tribunali, e attraverso ciò che avviene nelle aule dei Tribunali, si modifichi la concezione socio-culturale del nostro Paese, si cominci a dare atto che la donna non è un oggetto. Questa è la nostra richiesta». La “lezione” più importante del processo di Latina fu la richiesta di risarcimento simbolico contro lo stupro della dignità della vittima.  Il 9 agosto è entrato in vigore il cosiddetto Codice rosso la n. 69 del 19 luglio 2019 “contro la violenza domestica e di genere”. La legge prende il nome dall’obbligo per le procure italiane di ascoltare chi sporge denuncia per violenza sessuale o familiare entro tre giorni dalla iscrizione del procedimento. Il Codice, pur introducendo una lunga serie di nuovi reati, tra cui il quello di revenge porn, di costrizione al matrimonio e il reato cosiddetto “reato di sfregio”, rischia di rivelarsi dannoso, diventando il pretesto per dividere le donne nelle due categorie di vittime inermi o bugiarde nonché l’inevitabile critica di chi potrebbe sostenere che se ad ogni fatto si deve rispodere con urgenza niente sarà più veramente urgente.  

In Italia la violenza sulle donne in ambito familiare è un fenomeno endemico, con quasi 3 milioni le donne che hanno dichiarato  di aver subito violenza dal partner o ex partner. Secondo l’Istat, “la maggior parte delle donne che avevano un partner violento in passato lo hanno lasciato proprio a causa della violenza subita (68,6%)”. Eppure, quando i giornali raccontano i femminicidi, ribaltano la realtà evitando di sottolineare che la violenza maschile è la causa della rottura nella gran parte dei casi. La narrazione dominante vuole che sia la fine della relazione a scatenare il raptus omicida, perpetrando un sistema culturale che colpevolizza le donne per la violenza subita, e solleva gli uomini violenti dalle loro responsabilità. Questa mentalità  pesa sulla coscienza delle donne, che mantengono spesso il silenzio sulle violenze, nel timore che la denuncia finisca per danneggiarle.  Invero, non è infrequente nelle aule di giustizia ascoltare linee difensive che invocano un trattamento sanzionatorio più mite in quanto la condotta dell’imputato sarebbe stata cagionata dal comportamento “ambiguo” della vittima nei confronti dello stesso, dal fatto che la vittima avrebbe innescato in lui il “dubbio” di un tradimento e, quindi, in un certo senso, avrebbe “meritato” di sottostare ai maltrattamenti del compagno. È evidente, quindi, che l’intervento giudiziario in questo tipo di violenza non può estrinsecarsi con i medesimi strumenti che si adoperano al cospetto di altre forme di violenza.  Nel 1999 fece molto discutere la “sentenza sui jeans” in cui la Cassazione annullava la condanna inflitta dalla Corte di appello (Cass. sent. n. 1636/1998) affermando testualmente: «Deve poi rilevarsi che è un dato di comune esperienza che è quasi impossibile sfilare anche in parte i jeans di una persona senza la sua fattiva collaborazione, poiché trattasi di una operazione che è già assai difficoltosa per chi li indossa». Era il 2006 quando venne emanata dalla Cassazione (Sez. 3, Sentenza n. 6329 del 2006) un’altra sentenza che ha fatto discutere: violentare una donna non più vergine porta ad una condanna più lieve. La sentenza della Cassazione ha riconosciuto che la vittima minore di età era stata effettivamente violentata dal patrigno, ma senza aggravanti poiché ella «aveva avuto numerosi rapporti sessuali con uomini di ogni età» ed è quindi «lecito ritenere che già al momento dell’incontro con l’imputato la sua personalità, dal punto di vista sessuale, fosse molto più sviluppata di quella di una ragazza della sua età». 
Tali sentenze hanno alla base l’idea che la violenza sulla donna sia sempre in qualche misura determinata dalla stessa vittima la quale, quindi, da persona offesa diventa essa stessa imputata. Anche in tempi recenti, hanno avuto molto risalto mediatico alcune sentenze che, come già accaduto in passato, hanno riportato all’attenzione degli interpreti tale approccio al fenomeno della violenza di genere, vale a dire un approccio che appare fondato su quegli stessi stereotipi che sono proprio all’origine della violenza stessa. Nella sentenza della Corte di assise di appello di Bologna n. 29/2018 del 14 novembre2018, sul femminicidio di Olga Matei, la Corte ha riformato la sentenza di primo grado, concedendo le attenuanti generiche all’imputato. La Corte ha ritenuto che l’azione omicidiaria era stata cagionata  da «una tempesta emotiva e passionale» che secondo la Corte è idonea ad incidere sulla misura della responsabilità penale. Nella sentenza del Tribunale di Genova del 17 dicembre 2018 (sent. n.1340/2018) sul femminicidio di Angela Coello Reyes sono state parimenti riconosciute le attenuanti generiche all’imputato. Nella sentenza si legge che l’impulso che ha portato l’imputato a colpire la moglie con il coltello è scaturito da un «sentimento molto forte ed improvviso», che egli non ha semplicemente agito sotto la spinta della gelosia ma di un misto di rabbia e di disperazione, profonda delusione e risentimento, acuito dai fumi dell’alcol, dalla stanchezza per il lungo viaggio e dal «comportamento ambiguo della vittima». La sentenza, pur riconoscendo che l’imputato non aveva agito sotto la spinta della provocazione, ha ritenuto che il contesto nel quale si era collocata la sua azione omicidiaria si poneva, in un’ipotetica scala di gravità, su di un gradino più basso e meritava una pena meno severa. La sentenza afferma, quindi, che l’imputato ha agito sotto la spinta di un «moto di gelosia fine a sé stesso», per l’incapacità di accettare che la moglie potesse preferirgli un altro uomo, e come «reazione al comportamento della donna», del tutto incoerente e contraddittorio che l’ha illuso e disilluso nello stesso tempo. Le sentenze e le parole usate per scrivere queste sentenze influenzano, formano e riproducono comunque opinioni, orientamenti, comportamenti e senso comune. 
Le parole e il linguaggio non sono mai neutrali e s’inseriscono sempre in un discorso pubblico. Le affermazioni usate nelle sentenze in questione, ad esempio, mostrano la pervasività del culto delle emozioni nelle nostre società contemporanee. Si rende, pertanto, necessaria  una maggiore autoconsapevolezza e riflessione da parte dei giudici sulla cultura in cui operano. Proprio perché i magistrati non vivono nell’empireo è da loro che deve venire una riflessione su cosa le loro sentenze producono e sulla cultura che loro stessi esprimono e sostengono consapevolmente o inconsapevolmente. Senza contare che a volte anche le sentenze possono produrre mutamenti culturali. Di cosa è fatta la discrezionalità dei giudici se non da un complesso intreccio fra conoscenza giuridica, sensibilità, cultura ed esperienza personale?  Questa è a tutti gli effetti l’origine del problema: e non può quindi essere confusa con una “circostanza”, cioè con un elemento accessorio o di contorno, perché è invece l’essenza della violenza di genere; ed è profondamente sbagliata, pericolosa e contraria ai diritti umani. Perché la loro chiamata in causa implica un riconoscimento, quantomeno parziale, di tolleranza sociale. Invece, quell’incancellabile e meraviglioso “diritto di essere quello che si vuole”, inscritto prima di tutto nella natura umana, richiede, fra le tante altre cose ancora oggi negate (non solo) alle donne, anche la certezza che non si riconosca alcun rilievo esimente o attenuante a stati emotivi che gli altri si costruiscano semplicemente perché non si è state/i quello che loro si aspettavano.


venerdì 29 dicembre 2017

L'accordo di Tristano


L'accordo di Tristano è un accordo formato dalle note fa, si, re# e sol#.  È così chiamato perché si sente all'inizio dell'opera di Richard Wagner Tristano e Isotta, e costituisce il leit-motif del protagonista nel quale l’armonia classica comincia inesorabilmente ad andare in pezzi. In generale l’accordo è un elemento formato, in questo caso, da quatto suoni (tetracordo) che devono essere eseguiti simultaneamente; esso costituisce la base sulla quale poggia la melodia per un certo lasso di tempo. Il preludio inizia con il Motivo del filtro d’amore (La –Fa – Mi – Re diesis) sulla cui ultima nota s’innesta il Motivo del desiderio. Nel punto in cui questi due languidi motivi si allacciano, essi vengono sorretti da altre due note inferiori: Fa e Si. Ne nasce l’accordo (cominciando dal basso) Fa – Si – Re diesis - Sol diesis. 
L’accordo è anche uno degli elementi essenziali del contratto, e consiste nell’incontro dei consensi dei contraenti. La legge usa spesso termini quali "accordo", ma anche convenzione (che può essere considerato nient'altro che un sinonimo del precedente) per figure che sono di incerta collocazione, come le convenzioni di lottizzazione e le convenzioni matrimoniali, gli accordi patrimoniali tra coniugi, gli accordi tra amministrazioni pubbliche, gli accordi sostitutivi e integrativi di cui alla l. 241/1990. Dal momento che l'articolo 1321 c.c. definisce il contratto come accordo c'è quindi da comprendere se i termini siano sinonimi o se indichino fenomeni diversi. Secondo la dottrina quella dell'accordo sarebbe una categoria generale nella quale rientrerebbe il contratto. La legge però non dice cos'è un accordo, limitandosi a definire il solo contratto. 
Da questo punto di vista, allora, la nozione può essere data in via residuale: gli accordi sarebbero quegli atti giuridici bi o plurilaterali che non sono contratti ("atti di autoregolamentazione dei propri interessi a struttura bilaterale o plurilaterale, che possono avere anche contenuto non patrimoniale" li definisce Donisi; mentre Maiorca li definisce come "ogni accordo di volontà avente una funzione giuridicamente rilevante"). Secondo parte della dottrina, poi, gli accordi si differenzierebbero dal contratto per la mancanza del conflitto di interessi; il contratto, cioè, sarebbe un mezzo per comporre interessi in conflitto, in quanto "le parti, muovendo ciascuna dalla visione dei propri interessi e così da posizioni contrastanti, si incontrano in un punto di mezzo". L'accordo, invece si caratterizzerebbe anche per la convergenza di interessi. Accordi, e non contratti, sarebbero anche i cosiddetti patti tra gentiluomini. In realtà la definizione del contratto come accordo deve essere poi precisata, perché se pure è vero che il sostantivo accordo sta a significare che le parti devono entrambe volere lo stesso contenuto contrattuale manifestando la loro volontà in modo positivo, è altrettanto vero che il codice conosce molte figure di contratto nato senza accordo.
 In primo luogo basti pensare che una qualsiasi fattispecie negoziale è perfetta anche nel caso della cosiddetta riserva mentale, in cui un accordo vero e proprio manca. Un contratto senza accordo è poi la figura del contratto con obbligazioni a carico del solo proponente (in cui la fattispecie si perfeziona con il mancato rifiuto) e quella del contratto con se stesso nonché tutte quelle fattispecie in cui una delle due parti non ha alcun potere di determinare il contenuto del contratto, come nel caso dei contratti per adesione; in quest'ultima ipotesi, infatti, il contratto è concluso anche se il contraente aderente non conosceva le singole clausole contrattuali, perché è sufficiente la loro conoscibilità. Un altro caso di contratto che nasce senza accordo ricorre tutte le volte che opera la presunzione di conoscenza di cui all'articolo 1335 c.c, relativamente all'accettazione; dal momento che l'accettazione si presume conosciuta quando giunge all'indirizzo del destinatario può capitare, infatti, che il contratto sia concluso senza che il proponente ne sappia nulla.

domenica 3 dicembre 2017

L'obbligazione delle 5P



L’obbligazione delle 5 P nei confronti delle donne dovrebbe consistere in un vincolo giuridico tra donna e Stato con lo scopo di realizzare e garantire le seguenti azioni: Promuovere una cultura che non discrimini le donne; Prevenire, con misure idonee, la violenza maschile sulle donne; Proteggere le donne che vogliono fuggire dalla violenza maschile; Perseguire i crimini commessi nei confronti delle donne;Procurare un risarcimento, non solo economico, alle vittime di violenza. L’ultima normativa in materia di violenza di genere c.d. legge sul femminicidio (d.l. 14 agosto2013, n. 93, conv., con mod., dalla l. 15 ottobre 2013, n. 119) ha introdotto nel settore del diritto penale sostanziale e processuale una serie di misure, preventive e repressive, per combattere la violenza contro le donne per motivi di genere. Senza prevedere, però, la fattispecie del reato di femminicidio ma normalizzando  le nozioni di “violenzadomestica” (o violenza intrafamiliare) e di “violenza assistita”(quando i minori assistono ad episodi di violenza in danno di figure familiari di riferimento come per esempio i genitori o i fratelli). 
La mancata previsione di un reato specifico di femminicidio (o femicidio), come espressione della violenza di genere che produce la morte della donna per mano maschile presenta evidenti difficoltà connesse alla tipizzazione del fatto punibile. Non è agevole infatti tradurre in una formula dai contorni ben definiti il movente dell’autore (uccisione di una donna a causa della sua condizione di donna) espresso con un concetto di tipo sociale  ogniqualvolta l’uomo ricorra alla violenza ogniqualvolta  ravvisi la necessità di riaffermare il proprio potere sulla donna, e provarlo in casi concreti. La determinatezza dei presupposti della responsabilità penale pretende una descrizione precisa della condotta di chi uccide una donna “in quanto donna”, dovendola poi necessariamente differenziare dalle uccisioni di donne con movente diverso. Questi larghi margini di incertezza dei criteri di imputazione oggettiva e soggettiva della fattispecie da incriminare come femminicidio, e da formulare con elementi propri che vanno al di là del sesso della vittima, ricostruibili nella prassi solo in termini ipotetici e congetturali, soprattutto per quanto riguarda il movente dell’autore, descritto come “movente di genere”.
Tuttavia, questa previsioni permanendo nell’ambito di protezione della donna legata o già legata al suo aggressore da un rapporto affettivo, rischierebbe  di tipicizzare solo i c.d. “femminicidi intimi” (realizzati da un uomo in danno di una donna durante o al termine di una relazione sentimentale), lasciando fuori una tipologia di violenze che non si limitano ai rapporti di tipo affettivo ma a tutt’altro tipo di relazioni, come, per esempio l’omicidio dei clienti o degli sfruttatori in danno delle prostitute. La previsione di una fattispecie ad hoc di femminicidio, autonoma e più grave rispetto a quella di omicidio, in funzione di maggior tutela della donna, a parte le segnalate difficoltà di tecnica legislativa, pone inquietanti interrogativi di legittimità costituzionale, oltre che di opportunità, in ragione della violazione dell’uguaglianza formale del bene vita per l’omicidio dell’uomo e della donna. Il diritto penale rimane (e deve rimanere) neutrale rispetto ai sessi. E’ vero che in taluni casi l’applicazione uniforme del diritto è una delle molte facce che può assumere la discriminazione. In realtà, dietro l’atteggiamento di chi propone uno “statuto penale speciale” per le donne, o un “diritto penale della differenza” connotato dal genere femminile del soggetto passivo che miri a riconoscere alle donne maggiore protezione di quella degli uomini in relazione ai reati che si collocano nell’area della violenza maschile verso il genere femminile, c’è una visione di una società sessista e patriarcale cui, consapevolmente o inconsapevolmente, aderisce.
La lotta per porre fine alla violenza maschile sulla donna è incompatibile con l’idea di un diritto penale al femminile, di un regime “speciale” di protezione penale delle vittime in ragione del genere al quale appartengono. Tutta l’attenzione deve essere rivolta all’azione di mobilitazione delle coscienze per trasformare modi di pensare e istituzioni costruite sull’assunto dell’inferiorità femminile e per modificare la realtà sociale ancora organizzata su una bipartizione di generi che avvantaggia gli uomini e mantiene le donne discriminate o escluse. E per invertire la rotta la risposta deve essere, anzitutto, politica, con l’obiettivo di ricostruire un patto sociale tra donne e istituzioni dello Stato.