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sabato 11 novembre 2017

Chi fa la spia non è figlio di Maria...


L’articolo 622 del Codice Penale punisce la rivelazione del segreto professionale, e prevede che costituisca violazione della norma penale rendere noti fatti, circostanze, informazioni, notizie la cui diffusione potrebbe creare nocumento alla persona che si è rivolta al professionista in ragione del suo stato, ufficio, arte o professione (giornalista, medico, avvocato, commercialista, assistente sociale).Dunque, perché il reato si concretizzi, è sufficiente che la violazione del segreto possa comportare un danno o un pregiudizio giuridicamente rilevanti – siano essi morali, materiali, esistenziali – alla persona offesa, ma non è necessario che li “comporti” o li “debba comportare”: è pienamente sufficiente la potenzialità dannosa dell’azione del professionista. La ratio legis sottesa al diritto di astenersi dal testimoniare per coloro che fanno parte delle categorie professionali contemplate nell'art. 200, comma 1, c.p.p., tra le quali vi è quella degli avvocati, è caratterizzata dalla esigenza di garantire il normale esercizio di quelle particolari professioni.La norma processuale appena ricordata prevede per gli  avvocati una chiara ipotesi di esenzione dal generale dovere di testimoniare (da ritenersi estesa, secondo la lettura operata da Corte cost. 8 aprile 1997, n. 87, ai praticanti la professione forense) nonché per ogni altra persona che risulti far parte dell'ufficio della difesa, tutte le volte in cui il professionista forense (o il soggetto a lui collegabile) richiesto dagli organi inquirenti di fornire informazioni ovvero convocato dinanzi al giudice per testimoniare su ciò che sa in quanto avvocato, dichiara che intende astenersi opponendo il segreto professionale.Non è un privilegio concesso ad una categoria.
È un diritto potestativo – la cui natura impone che sia il professionista, nell'esercizio della corrispondente facoltà, ad opporre il segreto al giudice il quale giammai può rilevarlo d'ufficio – che ha per fine primario la protezione della libertà della funzione difensiva in particolare mediante la tutela della efficacia dell'esercizio della attività professionale forense e dei fondamentali diritti ad essa funzionali perché degni di rilevanza costituzionale come il diritto di azione e quello di difesa .Posto quindi che non è legalmente possibile pretendere dall'avvocato testimone o informatore la  rivelazione di quanto è a sua conoscenza tutte le volte in cui egli opponga il segreto professionale all'interrogante purché ciò che gli si domanda abbia attinenza con l'esercizio della funzione professionale, bisogna anzitutto individuare la reale portata del controllo che il giudice è tenuto ad operare su tale allegazione ove abbia motivo di dubitare della fondatezza della dichiarazione di astensione.La norma prevede che il giudice provveda agli accertamenti necessari (art. 200, comma 2, c.p.p.).Il controllo giudiziale deve ragionevolmente avere di mira anzitutto la verifica della qualifica soggettiva della persona che invoca il segreto e, accertata questa, proiettarsi sulla possibile connessione delle notizie richieste e non rivelate con l'esplicazione della addotta funzione difensiva o, più in generale, dell'attività stessa di avvocato ma non anche dell'esistenza di uno specifico mandato defensionale prima che del collegamento con il mandato stesso, non essendo l'esistenza o il mantenimento di quest'ultimo necessari per giungere a considerare oggetto di sapere  professionale quanto viene richiesto all'avvocato di rivelare. 
È sufficiente l'allegazione da parte del legale di non poter deporre sui fatti e relative circostanze richiesti perché vincolato dal segreto professionale avendoli conosciuti a causa dell'espletamento della funzione stessa (Cass. pen., Sez. V, 5 marzo 2013, n. 17979). L'espressione abbastanza chiara della norma non sembra lasciar spazio a dubbi, tantomeno ad interpretazioni ambigue che possano consentire al giudice di eludere il dovere di compiere ogni concreta verifica facendo semplicemente ricorso ad argomentazioni di carattere logico tratte dagli elementi del processo in cui la testimonianza si pretende che la testimonianza avvenga .Invero ciò che è necessario è al contempo e per sinonimia, da leggersi come fondamentale, obbligatorio, insopprimibile, inevitabile.

martedì 31 ottobre 2017

Il caro estinto




Ai sensi della Legge n. 130 del 2001, con la quale è caduto l'obbligo di ricovero delle ceneri nei Cimiteri italiani, le modalità di conservazione sono disciplinate nel rispetto delle volontà del defunto. Nel modulo di iscrizione al Registro Italiano Cremazioni, una sezione dedicata consente di poter indicare a quale familiare affidare la conservazione a domicilio delle ceneri. Non è obbligatorio specificarlo al momento dell’iscrizione: ciascun iscritto potrà decidere, quando lo riterrà più opportuno, se dichiarare la volontà di affidare le ceneri alla conservazione o alla dispersione. L'iscrizione al Registro Italiano Cremazioni, e la relativa comunicazione delle generalità della persona che si farà carico dell'affidamento - fatta salva la sua disponibilità ad accettare la conservazione delle ceneri - consente di ridurre, peraltro, i rischi di un eventuale disaccordo fra i parenti del defunto, permanendo il quale l'urna è momentaneamente tumulata nel Cimitero. In tema di conservazione delle ceneri, siano esse affidate al domicilio o, in alternativa, tumulate o interrate, la Legge ricorda che – rispettato l’obbligo di sigillare l’urna – deve essere sempre consentita la chiara identificazione dei dati anagrafici del defunto. Per il trasporto dell’urna contenente le ceneri non sono previste norme precauzionali di tipo igienico. Si consideri che la custodia dell’urna cineraria non è solo un onore per il soggetto affidatario, ma comporta anche l’assunzione di alcuni obblighi nei confronti del Comune, che rimane il titolare formale ed istituzionale della funzione cimiteriale. 
Infatti, l’urna deve essere conservata in luogo confinato e stabile, protetta da possibili asportazioni, aperture o rotture accidentali. Si consideri che l’autorizzazione all’affidamento di un’urna cineraria non costituisce, in sé, autorizzazione alla realizzazione di un colombario o di un manufatto edile, la cui costruzione è soggetta ad altra e diversa normativa. Occorre permettere l’accesso agli altri congiunti del de cuius perché essi possano esercitare il loro diritto di visitare i resti del defunto per atti rituali e di suffragio. L’affidatario è poi anche sottoposto alle ispezioni e ai controlli di vigilanza da parte del personale comunale (polizia mortuaria, che fa parte della Polizia Locale) all’uopo preposto e risponde penalmente di eventuali profanazioni delle ceneri se tale sacrilegio si dovuto a sua colpa grave o inadempimento. Inoltre, occorre specificare che l'affidamento delle ceneri non costituisce alcuna implicita autorizzazione a qualsivoglia forma di sepoltura privata. L’istituto dell’affido delle ceneri, nella sua evoluzione storica passa attraverso la legittimazione a collocare le ceneri, definite dal DPR 285/90 con la metonimia di “urne cinerarie”, in “altro sito” oltre che nel cimitero. Detto sito, però, secondo tutta la dottrina, avrebbe comunque dovuto insistere all’interno del camposanto, anche quando fosse sorto su area cimiteriale in concessione ad enti morali (oggi: associazioni riconosciute), e non avrebbe potuto essere altrimenti, in quanto l’art. 340 del Testo Unico Leggi Sanitarie (Regio Decreto 1265/1934) pone il divieto di sepoltura al di fuori dei cimiteri con una norma che ha rilevanza di ordine pubblico (cioè, inderogabile) siccome la sua violazione non solamente è soggetta a sanzione, ma importa anche il ripristino della situazione alterata, ammettendo, del tutto eccezionalmente, la sola deroga del successivo art. 341 TULLSS (e, in sua attuazione, dell’art. 105 dPR 285/1990) cioè la tumulazione privilegiata, la quale importa la valutazione di “giustificati motivi di speciali onoranze”, con la logica conseguenza che la sepoltura al di fuori dei cimiteri non può mai divenire pratica ordinaria. 
Dal punto di vista operativo, per attuare la volontà espressa secondo la disciplina di cui alla lettera e) delcomma 1 dell’art. 3 della Legge 130/01, ribadita dalla Legge regionale 20/2007, occorre il rispetto del seguente protocollo operativo: le volontà del defunto devono essere espresse in modo inequivocabile; l’urna, sulla quale saranno apposti i dati anagrafici del defunto, dovrà essere, e rimanere, sigillata in maniera tale da impedire la profanazione delle ceneri; la consegna dell’urna al familiare custode dovrà essere verbalizzata ex art. 81 DPR 285/90; il luogo di collocazione dell’urna dovrà essere garantito dal pericolo di profanazione.
Qualora, per qualsiasi motivo, l’affidatario o i suoi eredi intendano rinunciare all’affidamento dell’urna, essi sono tenuti a conferirla al Cimitero per la tumulazione o per la deposizione nel Cinerario Comune previa acquisizione dell’autorizzazione al trasporto da parte del Comune nel quale si trova l’urna affidata. E’ stata proprio una nuova interpretazione giurisprudenziale (Consiglio di Stato parere 2957/3 del 29 ottobre 2003) che ha attuato l’affido famigliare delle ceneri. Secondo il Consiglio di Stato l’affidamento ai familiari dell’urna delle ceneri è compiutamente disciplinato dalla lett. e) del comma 1 dell’art. 3 della Legge 130/01. Bisogna, però specificare come il DPR 24 Febbraio 2004 emanato dal Presidente della Repubblica in attuazione del parere formulato dal Consiglio di Stato, sia frutto di un ricorso in sede giurisdizionale, nelle more di una compiuta normazione regionale, il comune, dunque, ha solo facoltà e non obbligo di permettere l’affido delle ceneri, siccome il suddetto DPR 24 febbraio 2004, sotto l’aspetto giuridico, pur essendo un importantissimo precedente giurisprudenziale, vale solo per quell’unico caso preso in esame (cioè il ricorso presentato da un un cittadino contro un comune italiano) e non è automaticamente estensibile a tutte le richieste di affido. 
Una sentenza, dopo tutto, fa stato tra le parti (art. 2909 c.c.). Ciò detto, proprio perché l’affido dell’urna comporta tutti gli oneri sopra elencati, mi pare opportuno verificare che il soggetto selezionato sia d’accordo nell’assumerli e ne abbia, concretamente, la possibilità: la vita odierna porta spesso a lavorare lontano dalla casa avita, non solo in un altro Comune. Si consideri poi anche che il soggetto designato come affidatario non sarà eterno e quindi dovrà, a sua volta, designare un altro affidatario per il tempo in cui avrà cessato di vivere e così via. Se chiedere alla propria figlia di custodire l’urna nella casa lasciata in eredità ha sicuramente un significato affettivo ben preciso, con il passare delle generazioni tale significato tenderà, inevitabilmente, ad affievolirsi e dunque invito a chiedersi: che valore avrà l’urna delle mie ceneri per i miei bis-bis nipoti?





domenica 24 settembre 2017

Famolo strano!



Ed eccoci qui,  dalle cause di separazione basate sul “difetto di verginità” alle opposte circostanze in cui sono le donne che citano in giudizio gli uomini chiedendo risarcimenti da capogiro per il mancato adempimento dei doveri coniugali (al Tribunale di Bologna pende una causa promossa da una signora che pretende dal marito, dopo un fidanzamento “normale” sotto il profilo fisico, un ragguardevole risarcimento da “inadeguatezza sessuale” durante i successivi cinque anni di matrimonio). In realtà  tra gli obblighi che derivano dal matrimonio e dai quali dipendono diritti e doveri vicendevoli, non emerge nulla di specifico in tema di rapporti sessuali il secondo comma dellart. 143 c.c. che prevede come “…Dal matrimonio deriva l’obbligo reciproco alla fedeltà, all’assistenza morale e materiale, alla collaborazione nell’interesse della famiglia, ed alla coabitazione”.
Il concetto di fedeltà è esteso non solo alla presenza di relazioni sessuali extraconiugali, ma anche ai casi c.d. di "infedeltà apparente", "relazione platonica", "tentativo di tradimento", quali comportamenti in grado di ledere la sensibilità e la dignità del coniuge.  
È da diverso tempo che le problematiche inerenti la sfera più intima della vita di coppia hanno fatto il loro ingresso in giurisprudenza. I giudici hanno affrontato molte volte la questione dei c.d. "matrimoni bianchi", affermando che se la "sedatio concupiscentiae" non è l'unico scopo del matrimonio, in capo ai coniugi sussiste un vero e proprio diritto-dovere per ciò che concerne i rapporti sessuali, equiparabile agli altri diritti e doveri discendenti dal contratto matrimoniale.

Il rifiuto della sessualità infatti, senza alcuna giustificazione, dà luogo all’offesa della dignità della persona, comportante con la reiterazione di tale rifiuto anche un pregiudizio sul piano personale e psicologico ed una lesione del diritto costituzionalmente garantito alla salute psichica. Rientra nella casistica anche il caso in cui il coniuge si rifiuti per ritorsione o punizione.
Una famosa sentenza della Cassazione, sotto tale profilo, condannava un uomo che per lunghi anni aveva rifiutato di intrattenere rapporti sessuali con la moglie, giustificando egli tale rifiuto quale punizione di un mancato adempimento economico e contrattuale da parte del fratello del coniuge nei suoi confronti.
In numerose occasioni, i giudici hanno considerato legittimo il rifiuto allorché la pretesa (in genere dell’uomo) sia eccessivamente continuativa o ripetitiva, senza alcun rispetto della sensibilità e delle esigenze dell’altro coniuge.

E’ interessante notare sotto questo profilo come, in più occasioni, la Corte di Cassazione abbia precisato che, seppure determinati tipi di rapporti o costumi sessuali particolarmente aperti, fino a giungere ad incontri con altri partner o a scambi di coppia e simili, non costituiscano alcun illecito, se vengono accettati o richiesti anche dall’altro coniuge. Dalle sentenze emergono le situazioni più disparate: dai rapporti sessuali in ascensore (Cassazione 10060/2001) alle galanterie di un idralulico che si vantava di intrattenere sessualmente entrambe le sorelle, al sesso di gruppo,  fino all’utilizzo di animali nei rapporti sessuali per finire con pratiche sadomaso di gruppo (Corte Europea 17/02/2005).
Queste decisioni sono unite da un unico filo conduttore che stabilisce  il diritto di ciascun individuo di esercitare le pratiche sessuali che ritiene nel modo più libero possibile nel rispetto dell’altra persona e fino a quando questa non si tiri indietro.
Quindi non si  censurava la particolarità dei “giochi sessuali” (ove venivano usate secondo la dizione della sentenza, fruste, aghi, pinze, cera bollente, scosse elettriche, et similia), ma l’imposizione del “gioco” quanto ad un certo punto era mancato il consenso del coniuge, pur se inizialmente consenziente.
Tutt’altro è il discorso se i rapporti fisici vengono imposti, oltrepassandosi facilmente i limiti del Codice Civile e finendo nelle previsioni del Codice Penale per maltrattamento o peggio configurandosi il reato di stupro. La Corte Suprema infatti, relativamente ai reati contro la libertà sessuale, ritiene che integri la violazione dell’art. 609 bis Codice Penale qualsiasi forma di costringimento psichico o fisico, idoneo ad incidere sull’altrui libertà di autodeterminazione, a nulla rilevando l’esistenza di una rapporto di coppia coniugale o paraconiugale fra le parti
Ciò in quanto non esiste all’interno di tale rapporto un diritto all’amplesso, nè conseguentemente il potere di esigere una prestazione sessuale, né ha valore scriminante il fatto che la donna non si opponga palesemente ai rapporti sessuali, ma li subisca, quando si provi che l’autore delle violenze e minacce poste ripetutamente in essere nei confronti della vittima, aveva la piena consapevolezza del rifiuto della stessa agli atti sessuali.
Alla fine di tutto, tenuta in considerazione la particolare intimità della questione, com’è possibile  dimostrare “l'astinenza” per colpa di un coniuge? Sussiste un unico strumento processuale: la confessione del coniuge che non ha intenzione di fare sesso!