«Non vi chiediamo una condanna severa, pesante,
esemplare. Non ci interessa la condanna – esordì Lagostena Bassi – Noi vogliamo
che in quest’aula ci sia resa giustizia, che è una cosa diversa. Che cosa
intendiamo quando chiediamo giustizia come donne? Chiediamo che anche nelle
aule dei Tribunali, e attraverso ciò che avviene nelle aule dei Tribunali, si
modifichi la concezione socio-culturale del nostro Paese, si cominci a dare
atto che la donna non è un oggetto. Questa è la nostra richiesta». La “lezione”
più importante del processo di Latina fu la richiesta di risarcimento simbolico
contro lo stupro della dignità della vittima. Il 9 agosto è entrato in
vigore il cosiddetto Codice rosso la n. 69 del 19 luglio 2019 “contro la violenza domestica e di
genere”. La legge prende il nome dall’obbligo per le procure italiane di
ascoltare chi sporge denuncia per violenza sessuale o familiare entro tre
giorni dalla iscrizione del procedimento. Il Codice, pur introducendo una lunga
serie di nuovi reati,
tra cui il quello di revenge porn, di costrizione al matrimonio e il
reato cosiddetto “reato di sfregio”, rischia di rivelarsi dannoso, diventando
il pretesto per dividere le donne nelle due categorie di vittime inermi o
bugiarde nonché l’inevitabile critica di chi potrebbe sostenere che se ad ogni
fatto si deve rispodere con urgenza niente sarà più veramente urgente.
In Italia la violenza
sulle donne in ambito familiare è un fenomeno endemico,
con quasi 3 milioni le donne che hanno dichiarato di aver subito violenza dal partner o
ex partner. Secondo l’Istat, “la maggior parte delle donne che avevano un
partner violento in passato lo hanno lasciato proprio a causa della violenza
subita (68,6%)”. Eppure, quando i giornali raccontano i femminicidi, ribaltano
la realtà evitando di sottolineare che la violenza maschile è la causa della
rottura nella gran parte dei casi. La narrazione dominante vuole che sia la
fine della relazione a scatenare il raptus omicida, perpetrando un sistema
culturale che colpevolizza le donne per la violenza subita, e solleva gli
uomini violenti dalle loro responsabilità. Questa mentalità pesa sulla coscienza delle donne, che
mantengono spesso il silenzio sulle violenze, nel timore che la denuncia
finisca per danneggiarle. Invero, non è infrequente nelle aule
di giustizia ascoltare linee difensive che invocano un trattamento
sanzionatorio più mite in quanto la condotta dell’imputato sarebbe stata
cagionata dal comportamento “ambiguo” della vittima nei confronti dello stesso,
dal fatto che la vittima avrebbe innescato in lui il “dubbio” di un tradimento
e, quindi, in un certo senso, avrebbe “meritato” di sottostare ai
maltrattamenti del compagno. È evidente, quindi, che l’intervento giudiziario
in questo tipo di violenza non può estrinsecarsi con i medesimi strumenti che
si adoperano al cospetto di altre forme di violenza. Nel 1999 fece molto discutere la “sentenza
sui jeans” in cui la Cassazione annullava la condanna inflitta dalla Corte di
appello (Cass. sent. n. 1636/1998) affermando testualmente: «Deve poi rilevarsi
che è un dato di comune esperienza che è quasi impossibile sfilare anche in
parte i jeans di una persona senza la sua fattiva collaborazione, poiché
trattasi di una operazione che è già assai difficoltosa per chi li indossa». Era
il 2006 quando venne emanata dalla Cassazione (Sez. 3, Sentenza n. 6329 del 2006) un’altra sentenza che ha fatto discutere: violentare una donna non più
vergine porta ad una condanna più lieve. La sentenza della Cassazione ha
riconosciuto che la vittima minore di età era stata effettivamente violentata
dal patrigno, ma senza aggravanti poiché ella «aveva avuto numerosi rapporti
sessuali con uomini di ogni età» ed è quindi «lecito ritenere che già al
momento dell’incontro con l’imputato la sua personalità, dal punto di vista
sessuale, fosse molto più sviluppata di quella di una ragazza della sua età».
Tali
sentenze hanno alla base l’idea che la violenza sulla donna sia sempre in
qualche misura determinata dalla stessa vittima la quale, quindi, da persona
offesa diventa essa stessa imputata. Anche in tempi recenti, hanno avuto molto
risalto mediatico alcune sentenze che, come già accaduto in passato, hanno
riportato all’attenzione degli interpreti tale approccio al fenomeno della
violenza di genere, vale a dire un approccio che appare fondato su quegli
stessi stereotipi che sono proprio all’origine della violenza stessa. Nella
sentenza della Corte di assise di appello di Bologna n. 29/2018 del 14 novembre2018, sul femminicidio di Olga Matei, la Corte ha riformato la sentenza di
primo grado, concedendo le attenuanti generiche all’imputato. La Corte ha
ritenuto che l’azione omicidiaria era stata cagionata da «una tempesta emotiva e passionale» che
secondo la Corte è idonea ad incidere sulla misura della responsabilità penale.
Nella sentenza del Tribunale di Genova del 17 dicembre 2018 (sent. n.1340/2018) sul femminicidio di Angela Coello Reyes sono state parimenti
riconosciute le attenuanti generiche all’imputato. Nella sentenza si legge che
l’impulso che ha portato l’imputato a colpire la moglie con il coltello è
scaturito da un «sentimento molto forte ed improvviso», che egli non ha
semplicemente agito sotto la spinta della gelosia ma di un misto di rabbia e di
disperazione, profonda delusione e risentimento, acuito dai fumi dell’alcol,
dalla stanchezza per il lungo viaggio e dal «comportamento ambiguo della
vittima». La sentenza, pur riconoscendo che l’imputato non aveva agito sotto la
spinta della provocazione, ha ritenuto che il contesto nel quale si era
collocata la sua azione omicidiaria si poneva, in un’ipotetica scala di
gravità, su di un gradino più basso e meritava una pena meno severa. La
sentenza afferma, quindi, che l’imputato ha agito sotto la spinta di un «moto
di gelosia fine a sé stesso», per l’incapacità di accettare che la moglie
potesse preferirgli un altro uomo, e come «reazione al comportamento della
donna», del tutto incoerente e contraddittorio che l’ha illuso e disilluso
nello stesso tempo. Le sentenze e le parole usate per scrivere
queste sentenze influenzano, formano e riproducono comunque opinioni,
orientamenti, comportamenti e senso comune.
Le parole e il linguaggio non sono
mai neutrali e s’inseriscono sempre in un discorso pubblico. Le affermazioni
usate nelle sentenze in questione, ad esempio, mostrano la pervasività del
culto delle emozioni nelle nostre società contemporanee. Si rende, pertanto, necessaria una maggiore autoconsapevolezza e riflessione
da parte dei giudici sulla cultura in cui operano. Proprio perché i magistrati
non vivono nell’empireo è da loro che deve venire una riflessione su cosa le
loro sentenze producono e sulla cultura che loro stessi esprimono e sostengono
consapevolmente o inconsapevolmente. Senza contare che a volte anche le
sentenze possono produrre mutamenti culturali. Di cosa è fatta la
discrezionalità dei giudici se non da un complesso intreccio fra conoscenza
giuridica, sensibilità, cultura ed esperienza personale? Questa è a tutti gli effetti l’origine del
problema: e non può quindi essere confusa con una “circostanza”, cioè con un
elemento accessorio o di contorno, perché è invece l’essenza della violenza di
genere; ed è profondamente sbagliata, pericolosa e contraria ai diritti umani. Perché
la loro chiamata in causa implica un riconoscimento, quantomeno parziale, di
tolleranza sociale. Invece, quell’incancellabile e meraviglioso “diritto di
essere quello che si vuole”, inscritto prima di tutto nella natura umana,
richiede, fra le tante altre cose ancora oggi negate (non solo) alle donne, anche
la certezza che non si riconosca alcun rilievo esimente o attenuante a stati
emotivi che gli altri si costruiscano semplicemente perché non si è state/i
quello che loro si aspettavano.