martedì 9 settembre 2014

Reato di omicidio stradale: perplessità tecnico-giuridiche

L'incidente stradale può essere definito come l’evento avverso, improvviso, inaspettato ed indesiderato che si verifica sulla strada e nel quale sono coinvolti uno o più veicoli e una o più persone.
Sotto il profilo delle possibili conseguenze giuridiche, gli incidenti stradali possono essere ripartiti a seconda che da essi derivino soltanto danni alle cose, oppure che ne risultino anche lesioni alle persone o la morte di una o più di esse.
L’incidente stradale a causa e per effetto del quale derivano solo danni alle cose, si risolve di solito in via stragiudiziale, mediante il risarcimento dei danni di una parte verso l’altra, a seconda delle singole responsabilità.
Nel nostro ordinamento giuridico il reato di danneggiamento è punito solo a titolo di dolo. Perciò, l’incidente stradale con solo danni alle cose, non vedrà mai l’intervento dell’Autorità Giudiziaria penale, la quale è competente a conoscere ed a decidere soltanto di fatti che costituiscono reato.
Le lesioni personali e l’omicidio sono invece punibili anche a titolo di colpa; dunque se in conseguenza dell'incidente derivano lesioni alle persone o la morte di una o più persone, vi potrebbero essere responsabilità penalmente rilevanti a carico di uno o più dei protagonisti dell'incidente.
Quando dall’incidente stradale derivano soltanto lesioni alle persone, indipendentemente dal tipo e dalla durata della malattia patita dalla persona infortunata, l’intervento dell’autorità giudiziaria penale è condizionato dall’esercizio del diritto di querela da parte della persona offesa nei confronti di colui che le lesioni ha provocato. L’esercizio di questo diritto è condizione necessaria per l’esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero. Quando, invece, dall’incidente deriva la morte di una o più persone, il pubblico ministero agisce di iniziativa, essendo in questo caso obbligatorio l’esercizio dell’azione penale.
Al giudice civile o penale, a seconda della competenza, spetta di accertare le cause che hanno determinato il fatto, di decidere e pronunciarsi in ordine alle responsabilità dei protagonisti; responsabilità che potranno essere solo di natura civile, cui conseguirà per il responsabile l’obbligo di risarcire il danno prodotto; oppure civili e penali, per cui al responsabile, oltre al dovere di risarcire il danno, può essere applicata la sanzione penale.
L’art. 140 del nuovo codice della strada (cod. str.), afferma un principio immanente nel nostro ordinamento e che impone ad ogni utente stradale di comportarsi in modo tale da non costituire pericolo o intralcio per la circolazione ed in modo che sia, in ogni caso, salvaguardata la sicurezza stradale; i singoli comportamenti, sono fissati dalle norme previste dal codice citato
La norma di diritto pubblico, quindi, non tutela un particolare bene della collettività, ma in generale, è finalizzata a tutelare la sicurezza stradale e a prevenire - mediante l’imposizione di ordini ed il rilascio di speciali autorizzazioni per l’uso della strada - ogni possibile episodio che possa minacciarla od anche, semplicemente turbarla.
Ora, il sinistro stradale non è un evento imprevedibile - salvo rarissimi casi, che vorremmo definire, in certo qual modo, “fisiologici” - ma senz’altro riconducibile ad un comportamento umano non conforme a comuni regole di prudenza, di perizia e di diligenza nella guida ovvero, di inosservanza di regole giuridiche di comportamento; è tanto pleonastico affermarlo, quanto utile ricordarlo: se il comportamento di guida avvenisse secondo tali regole giuridiche e di civile convivenza, ben rari sarebbero gli episodi in cui un sinistro si verrebbe a verificare.
Ecco che quindi, se non altro, l’analisi e lo studio di ogni sinistro stradale, tende a far conoscere un comportamento di guida inidoneo e che, nel caso di specie, riguarda direttamente il conducente.
Alla parola "conducente" la mente corre ad un argomento di grande attualità che necessita di una soluzione in tempi brevi. Sì, la mente si rivolge alla guida in stato d'ebbrezza o sotto l'effetto di sostanze stupefacenti la cui conseguenza sia un sinistro stradale con decesso delle persone coinvolte.


Tutti auspicano però tempi celeri, con l’introduzione dell’arresto in flagranza (ora non sono previste misure cautelari), l’aumento della pena da 3 a 10 anni fino a 8-18, oltre al cosiddetto “ergastolo della patente”. Chi ucciderà a causa di incidenti stradali dovuti all’effetto di alcol o droga dovrà dire per sempre addio alla licenza di guida. 
Quella delle morti sulla strada è ormai un’emergenza. Lo confermano i numeri e le statistiche, fornite da occhioallastrada.it gli incidenti stradali negli ultimi dieci anni nel comune di Firenze e le loro cause: «Secondo le analisi, il 30% degli incidenti gravi è associabile all’alcool, il 40% dei decessi di pedoni è causato da motocicli e ciclomotori e oltre il 80% di morti e feriti sono pedoni e motociclisti. Gli incidenti mortali sono causati nell’87% dei casi da adulti con più di 25 anni. E l’80% di questi sono maschi», si legge. Si spiega anche a cosa servirebbe l’aumento della pena:
«Passare da una pena di 3-10 anni per aver ucciso una persona in un incidente quando si è sotto l’effetto di alcol e droga a 8-18 anni significa essere certi che non ci siano patteggiamenti e riti abbreviati che possano far evitare completamente il carcere».
Da sempre l'organizzazione civile deve e vuole razionalizzare il sistema normativo vigente ai fatti storici che richiedono maggiore attenzione come negli anni 70/80 in cui si puniva con maggiore severità il reato di sequestro di persona proprio in forza di un'urgenza sociale. Nello specifico sull'omicidio stradale per comminare pene più elevate, o si agisce sull'omicidio volontario con dolo eventuale, operando però una forzatura del concetto giuridico sottostante, perché il dolo eventuale presuppone che chi agisce metta in conto le conseguenze della propria condotta ma se ne disinteressi; oppure si rafforzano le pene previste per l'omicidio colposo, che non presuppone cioé la volontà di uccidere.
E' necessario evitare l'irrazionalità, in questo rafforzamento, il nuovo provvedimento si deve innestare organicamente con l’attuale quadro normativo altrimenti il sistema sanzionatorio diventa discrezionale, senza proporzionalità tra un certo tipo di reato e un altro. Le attuali sanzioni già prevedono pene da tre a 10 anni per l'omicidio colposo con violazione delle norme sulla circolazione stradale con le aggravanti per la guida in stato di ebbrezza e sotto l'effetto di droga".
E l'ergastolo della patente? "Il ritiro e sospensione della patente sono gia' previsti. Il fatto che  non la si  possa più riavere per tutta la vita, é davvero una cosa logica? 


Il rigore sanzionatorio svincolato dalla ragione per cui infliggiamo la pena si traduce in vendetta sociale.




martedì 2 settembre 2014

Ianua advocati pulsanda pede



"Prima cosa ammazziamo tutti gli avvocati" (Amleto)


"Cosa sono 1000 avvocati incatenati al fondo dell'oceano? Un buon inizio..." (Tom Hanks)

 


Queste due battute a distanza di 400 anni l’una dall’altra sono il modo migliore per aprire l’argomento su una delle professioni da sempre più discusse. Perché, diciamoci la verità, appena si parla di “avvocati” la prima idea che corre è quella di difensori dei diritti o azzeccagarbugli abili solo a far assolvere i colpevoli? Professionisti della logica o dotati retori? La linea di confine è così labile che l’immaginario collettivo li ha sempre collocati a cavallo tra la menzogna e il rigore.

La parola “avvocato” deriva dal latino advocatus sostantivo derivante dal participio passato del verbo advoco = ad-vocatum = chiamato a me, vale a dire "chiamato per difendermi", cioè "difensore".

L’odio da sempre legato al legale va a braccetto con la parola “parcella“: un peso che ha trascinato questa categoria nel più profondo girone dantesco. Perché bisogna pagare per far valere i propri diritti? In realtà, la risposta è la stessa per cui bisogna remunerare un medico per godere di buona salute o aprire un mutuo per avere un tetto sotto cui dormire.

I primi avvocati erano anche filosofi, e questo perché non esistevano corpi legislativi definiti e certi. Erano, insomma, la classe che non zappava, ma guardava le stelle. Un’anima teorica che, a quanto sembra, è rimasta sino ad oggi.

Ciò che, però, si ignora è che, ai tempi dei romani, il compenso dell’avvocato era la fama, acquisita la quale si poteva pensare d’intraprendere la carriera politica. In quel periodo sussisteva il divieto di ricevere denaro in cambio delle proprie prestazioni professionali e la violazione di tale precetto era sanzionata con una pena pecuniaria. Il divieto, sin da allora e secondo buona prassi italica, veniva sistematicamente raggirato poiché era consentito – proprio come avviene oggi nei migliori ambienti della pubblica amministrazione – accettare doni e regalie da parte dei clienti riconoscenti. Da qui venne il detto: “ianua advocati pulsanda pede” (“alla porta dell’avvocato si bussa col piede”, visto che le mani sono occupate a reggere i doni).

“La giurisprudenza estende la mente e allarga le vedute”: una considerazione che, seppur vera, si scontra con la prassi. Il carattere di un avvocato, infatti, è permaloso e presuntuoso. Provate a fargli cambiare idea: se ci riuscirete sarà solo perché lui vi ha fatto credere così. In realtà, ogni avvocato resta sempre della propria idea. Giusta o sbagliata che sia. Ed anche dopo la sentenza che gli dà torto. A sbagliare è sempre il giudice o la legge.

L’avvocato è una persona abituata a fare domande e, nello stesso tempo, ad essere evasivo a quelle che gli vengono rivolte. È solito prendere decisioni e a prenderle in fretta (calcolate la differenza di tempi con un ingegnere e vedrete!). È dotato di problem solving e il suo obiettivo è trovare l’escamotage per uscire fuori dal problema, in qualsiasi modo possibile.

Inoltre, l’avvocato, nell’esercizio della propria professione, è un irriducibile individualista: se ne sta nel suo studio, a coltivare le sue pratiche, e l’idea dell’associativismo gli fa venire l’orticaria.

Egli considera ogni minuto sottratto al proprio lavoro una perdita di tempo. Il tempo appunto: ogni legale nasce con l’orologio al polso, e questo perché la vita professionale è costellata di scadenze.

Così come la caratteristica di ogni buon medico è quella di scrivere le ricette con una grafia incomprensibile, dote di ogni avvocato è parlare con un linguaggio mai chiaro per il cittadino. Tra latinismi, istituti, tecnicismi, concettualismi, astrazioni, teorie e interpretazioni, commi, articoli, leggi, leggine e sentenze, il vocabolario del legale è precluso ad ogni persona che non sia, appunto, un altro legale. E questo – a quanto sembra – gratifica infinitamente ogni avvocato che si rispetti.

Su tutto, però, l’avvocato è un relativista nell’accezione più pirandelliana del termine. La realtà non esiste (e chi se ne frega!): esiste solo ciò che appare dalle carte. Tutto il resto è mutevole, contraddittorio, variabile, volubile, capriccioso, instabile. Tanto vale non pensarci e accontentarsi di ciò che racconta il cliente.

Si dice che il problema dell’avvocatura sia il numero. Su 9.000 giudici, in Italia ci sono circa 220.000 avvocati.
in Italia nel corso degli anni è andata progressivamente crescendo una grande inflazione nel numero di avvocati: poco dopo la fine degli anni novanta del XX secolo, quando in Francia esercitavano solo ottomila avvocati sull'intero territorio nazionale, fu l'ex vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura Giovanni Verde a dire che nella sola provincia di Napoli c'erano più avvocati che Oltralpe
Quel paragone venne riesumato dal presidente reggente della corte d'Appello di Roma, Claudio Fancelli, che alla cerimonia di inaugurazione dell'anno giudiziario 2008 per inciso accolla lo sfascio del processo civile e penale all'«abnorme numero di avvocati» presenti nella città di Roma. In quell'occasione Fancelli non fece numeri, ma dichiarò: 
« L' abnorme numero di avvocati iscritti all' Ordine forense, a Roma tanti quanti l' intera Francia, può inconsapevolmente determinare il rischio di un incremento del ricorso dei cittadini alla giurisdizione e quindi, stante la carenza strutturale di risorse, un allungamento dei tempi processuali»
 
In realtà, il problema sarebbe di gran lunga più grave se di avvocati ve ne fossero pochi, circostanza che aprirebbe le porte alla scarsità e, quindi, a tariffe ancora più alte e a una certa difficoltà a poter difendere tutti.

Permaloso e Presuntuoso, appunto ( lo sa persino l’ex Ministro Cancellieri)!!


lunedì 1 settembre 2014

La mia palestra mi ha venduto



(Ti rechi in palestra e scopri che entro poco tempo cesserà l’attività, tu hai pagato l’abbonamento annuale che scade nel 2015 e ti trovi ceduto a nuova gestione)


Il contratto di abbonamento (o contratto di somministrazione), è il contratto con il quale una parte (fornitore) si obbliga, verso corrispettivo di un prezzo, a eseguire, a favore dell'altra (somministrato), prestazioni periodiche o continuative di cose o servizi.
Ci può essere somministrazione d'uso, per cui le cose fornite vanno restituite al termine dell'utilizzo, o somministrazione di consumo, per cui le cose fornite passano di proprietà del somministrato.
La fattispecie che ci occupa ha ad oggetto un contratto a prestazioni corrispettive e, dunque, secondo quanto stabilito dall’art. 1453 del Codice Civile in caso di inadempimento di una parte l’altra può a sua scelta chiedere l’adempimento o la risoluzione del contratto, salvo in ogni caso, il risarcimento del danno.
In ogni caso il contratto non si può risolvere se l’inadempimento di una delle parti ha scarsa importanza, avuto riguardo all’interesse dell’altra.
Un esempio di scarsa importanza può essere la chiusura non programmata della domenica mattina non di certo la cessazione delle attività in maniera integrale.

Vorrei, inoltre, precisare che l’automatismo per cui l’ abbonamento di cui sei titolare dovrà passare alla nuova gestione della palestra, non è previsto dalla legge ed è fuori da ogni logica giuridica.

Infatti, avendo sottoscritto un contratto con la gestione A. Se A cede il contratto a B, o meglio se A vuole cedere il contratto a B; DEVE AVERE IL TUO CONSENSO!


Infatti, ai sensi degli articoli 1406 e 1407 del codice civile, in materia di cessione del contratto, occorre il consenso del ceduto  per la cessione del contratto, ossia dell'abbonamento alla palestra.


Art. 1406 del codice civile. Nozione.

Ciascuna parte può sostituire a sé un terzo nei rapporti derivanti da un contratto con prestazioni corrispettive, se queste non sono state ancora eseguite, purché l'altra parte vi consenta.


Art. 1407 del codice civile. Forma.

Se una parte ha consentito preventivamente che l'altra sostituisca a sé un terzo nei rapporti derivanti dal contratto, la sostituzione è efficace nei suoi confronti dal momento in cui le è stata notificata o in cui essa l'ha accettata.

Tanto premesso, ci sono tutti i presupposti per risolvere il contratto e chiedere il rimborso della somma di competenza, dal momento della risoluzione dell'abbonamento, alla sua scadenza, nonché il risarcimento del danno.



VADEMECUM ESSENZIALE
In genere le palestre offrono abbonamenti mensili, trimestrali e annuali. Le singole entrate sono normalmente poco convenienti.
Chiedete se per l'abbonamento annuale o trimestrale è prevista la possibilità di sospendere la frequenza per un determinato periodo.
Solitamente il pagamento degli abbonamenti mensili, trimestrali ed annuali avviene in un'unica soluzione (poche palestre adottano il pagamento rateale per la quota annuale appoggiandosi d una finanziaria).

Altra spesa che vi sará richiesta al momento dell'iscrizione è quella relativa alla tassa annuale, il cui importo varia dai 20 ai 40 euro. Normalmente tale voce di spesa è comprensiva di un´assicurazione infortuni; è sempre bene peró chiederne conferma.

Di solito tra le clausole del contratto di iscrizione non è prevista la possibilitá di recesso e pertanto il vostro obbligo di pagamento sussiste anche nel caso in cui, per cause sopravvenute, non potete piú frequentate la palestra. L'estinzione dell'obbligazione sarà possibile solo se la causa impeditiva non vi è imputabile (p. es. rottura di una gamba, gravidanza, operazioni mediche ecc.)

Inoltre, alcune palestre offrono contratti annuali, che devono essere disdetti per iscritto alcuni mesi prima della scadenza, altrimenti si rinnovano tacitamente per un altro anno. Prestate attenzione!!!

giovedì 28 agosto 2014

Amo la toga, non per le mercerie dorate che l’adornano né per le larghe maniche che danno solennità al gesto, ma per la sua uniformità stilizzata, che simbolicamente corregge tutte le intemperanze personali e scolorisce le disuguaglianze individuali dell’uomo sotto la divisa della funzione. La toga, uguale per tutti, riduce chi la indossa a difesa del diritto. (Piero Calamandrei).

La liberalizzazione della professione forense

 
Premessa: adotterò un linguaggio non tecnico, quindi i puristi non se ne abbiano a male.
Che l’avvocatura italiana abbia bisogno di svecchiarsi, non c’è dubbio.Non è però possibile che da qualche tempo a questa parte sia in atto una manovra giornalistico-politica volta ad addebitare agli avvocati la responsabilità da un lato della lentezza e delle disfunzioni della Giustizia, e dall’altro della crisi del paese.
Così, in contemporanea, si leggono affermazioni sull’eccessivo numero di avvocati in Italia fatte dalle stesse persone che chiedono a gran voce una maggiore “liberalizzazione”.
D’altra parte c’è in atto una manovra per abbassare coattivamente, con una serie di interventi da soviet vecchio tipo (ma sempre fatti in nome del liberismo, sia chiaro!), le tariffe degli avvocati.
Per esempio d’ora in poi quando un privato o una società vuole eseguire una sentenza o decreto ingiuntivo, magari per il recupero di un credito, è stato previsto (D.M. 140/12) che l’importo che si può porre a carico del debitore inadempiente con l’atto di precetto sia assai inferiore al valore dell’attività svolta.
Ancora: la recente legge di stabilità prevede che il giudice non possa liquidare compensi giudiziali in misura maggiore del valore della causa.
Come se fosse previsto che un idraulico non può essere pagato più del prezzo che costa il materiale.
Evidentemente, tutto ciò riesce ad essere allo stesso tempo profondamente ingiusto, inutilmente punitivo e vergognosamente ridicolo: insomma, un record.
E se guardiamo bene, ciò significa far risparmiare chi non paga, cioè chi “si comporta male”, che viene incentivato a non adempiere i propri debiti.
E, dall’altro lato, posto che gli avvocati non sono enti di beneficenza e non lavorano gratis (cosa che lo stato sa bene viste le tasse/imposte/balzelli vari che chiede!) è evidente che l’avvocato chiederà i soldi per il suo compenso al cliente.
Dunque perché questo è stato fatto?
La versione ufficiale è “per abbassare le spese legali per i consumatori“.
Signori miei: sono tutte balle!
La verità è che il provvedimento serve, per esempio e tanto per essere chiari, alle compagnie assicurative che risparmieranno milioni di euro di spese legali da pagare in caso perdano la causa.
O serve alle banche e grandi aziende per imporre ai propri avvocati costi legali al ribasso.
Al singolo cliente (e smettiamola con ‘sta menata dei “consumatori”! Un avvocato ha clienti, non consumatori. Non siamo al supermercato) privato, o alla piccola azienda, non serve a nulla: anzi, come detto, tutto ciò si risolve in un danno.
Il resto è fuffa.
Si vuole distruggere la categoria degli avvocati? Si abbia quantomeno la decenza intellettuale di dirlo apertamente.
Ma mi rendo conto che sto chiedendo troppo.
 

L'avvocato




 
   Un mio parere sui "vantaggi e gli svantaggi morali ed economici della professione di avvocato" - un parere che non comparirà mai sul mastro o sulla parcella concretato in cifre - mi chiede don Coiazzi: dovrei a un tempo essere difesa e pubblico ministero della mia troppo calunniata professione.
   Leggendo il biglietto-comando ho sentito che il manzoniano don Coiazzi, mentre mi scriveva, doveva aver dinanzi agli occhi il dottor Azzeccagarbugli in veste da camera, cioè coperto d'una toga ormai consunta, nell'atto d'accogliere Renzo "umanamente" in quel suo studio o stanzone, sulle pareti del quale eran distribuiti i ritratti dei dodici Cesari; cer o doveva mordicchiare il discorsetto del dottore "all'avvocato bisogna raccontare le cose chiare; a noi tocca poi a imbrogliarle... Se volete passarvela liscia, danari e sincerità"; prima danari, sincerità poi.
   Volevo, perciò, a tutta prima restituire l'invito tentatore ma poi ho pensato che la restituzione non sarebbe stata così meritoria come l'ordine di restituire a Renzo i quattro polli, ordine che quella serva non aveva mai, in tutto il tempo era stata in quella casa, avuto occassione d'eseguire, tanto era straordinario: e dissi di sì. Quanto più facile dir sì che l'attuarlo! Occorre che io annodi ricordi, che affondi gli occhi entro me stesso e scruti e vagli i fatti, le ragioni, i sentimenti, e cacci nei segreti silenzi quel che mi dà rossore...
   Mi sono fatto avvocato liberamente: non pressioni e convenienze familiari: i miei santi genitori erano dei contadini, e perciò contro o sopra di me non tradizioni non interessi o contrasti di posizioni professionali preesistenti. Scelsi la facoltà di giurisprudenza perché mi piacevan gli studi di diritto; perché mi piaceva parlare in pubblico, affrontando contradditori, lottando contro ogni sopruso, contro ogni ingiustizia, contro ogni violenza - perché mi pareva che nell'esercizio dell'avvocatura potessi di più affermare le idee di democratico cristiano, dar sfogo alla mia passione politica, allo spirito popolare insito nella mia natura, per grazia di Dio, un po' sanamente contadina.
   Andai alla mia professione per sentimento, non per calcolo; l'esercito con sentimento e forse con eccessivo disinteresse; dico "forse eccessivo disinteresse", perché, povero, devo pur provvedere alla mia famiglia, alle mie bambine, a mia moglie che fortunatamente scelsi non ricca, ma veramente buona.
   Perché scelta senza criterio di calcolo, la professione mi è ricca di soddisfazioni e di dolori grandissimi: ad esempio mentre le mie qualità naturali mi porterebbero maggiormente a fare il penalista, devo attendere il meno possibile alla difesa penale, poiché soffro, sino a risentirne danno fisico, se il mio difeso, della cui onestà e innocenza io abbia la certezza, non riesce assolto.
   Consigliare, assistere, disingannare, sconsigliare, correggere maniaci litigiosi, fare ogni sforzo per ridare consistenza morale a famiglie sconquassate, compatire colpe, facendo sì che la vergogna segreta non diventi scandalo e scherno al pubblico in genere, sentire che attraverso il nostro ministero altri trovano calma, conforto, equilibrio, tutela, è gioia da non potersi dire, attenuata solo dalla dolorosa necessità di richiederne la mercede tangibile, il prezzo in moneta sonante.
   Troppe volte, però, dopo meditazioni, ricerche, scrupolosi studi, se la causa è vinta e il parere risulta buono, si sente mortificare la nostra intima soddisfazione con un "eh, vorrei vedere se avesse perso questa causa!"; per contro, se nella dubbia e difficile controversia si ottiene sentenza sfavorevole studi pazienti, diligenze accurate, dottrina ecc. nulla contano per il cliente, che, feroce, esce in un "non mi doveva perdere questa causa": per la clientela ogni vittoria è quasi sempre merito della causa; ogni sconfitta, sempre colpa dell'avvocato.
   La storia dolorosa è comune a tutte le professioni, perciò con il tempo ci si fa un po' il callo. Quel che più rattrista è l'allontanamento di clienti offesi dal consiglio amico, dalla verità schietta, perché contraria ai loro pregiudizi, perché non pieghevole a mezzi da essi ritenuti, forse in buona fede, leciti e onesti: per tale rifiuto, che è dovere, il cliente si muta in detrattore.
   E quante volte, soprattutto nei piccoli centri, l'interesse professionale viene a cozzare gravemente contro il dovere della fermezza nelle proprie idealità politiche! Troppo spesso i clienti pretendono che il loro avvocato sia anche il loro compagno di fede; ne seguono, quindi, vendette, talvolta ricatti per vincere i quali occorre forte energia, e nel superamento dei quali si lascian brandelli di anima. Ai clienti tutto dare, eccettuata la coscienza.
   In troppi casi l'avvocato può essere la rovina o la fortuna morale ed economica delle famiglie, perciò più d'ogni altro professionista deve avere in sé un criterio infallibile di moralità assoluta, dei limiti del bene e del lecito, dev'essere profondamente cristiano. Ogni giorno ha modo, nell'esercizio della sua missione di consigliere, di mostrarsi con se stesso e con gli altri cristiano: se in sé porta questa luce di fede, in se stesso avrà la sorgente di profonde gioie professionali; guai se tali soddisfazioni s'illude di trovare nel favore popolare, nella fama tra i clienti, cui bisogna con umiltà e dignità servire senza tramutarsi in servi!
   E dovrei ancora dire due parole sui vantaggi economici della professione: temo che la Rivista, per essere molto diffusa cada sott'occhio al fisco, che ne trarrà deduzioni fastidiose. La prudenza non è mai troppa...
   Ma che utilità porterebbe il discorrere di "vantaggi economici" dell'avvocatura? Come in ogni altra professione il vantaggio economico è la risultante di questi tre fattori:
   I° sapere; II° saper fare; III° far sapere. I lettori illuminino queste tre condizioni con un triplice ordine di fattori morali:
 - amare nei clienti il prossimo;
- proprio con i clienti, soprattutto e innanzi tutto con essi, agire con severa e schietta giustizia;
- non disgiungere la mercede del cliente dal premio divino.
 
   E avranno le condizioni della perfetta riuscita economica e cristiana dell'avvocato, di quel professionista che mai dovrebbe nella sua opera meritare le acerbe parole di Renzo ad Agnese, sempre a proposito dell'avvocato Azzeccagarbugli: "Bel parere che mi avete dato! M'avete mandato da un buon galantuomo! da uno che aiuta veramente i poverelli!"
   Che se poi, come gli scolari elementari al loro componimento, anch'io dovessi, per accontentare il moralista cattolico e manzoniano don Coiazzi, trovare una morale a questa mia confessione schietta di amico ad amici, ripeterò con il Manzoni, a coloro che temono sempre di non avere intrapresa la professione adatta, trovata la loro via, e soffrono di tristi dubbi: "La religione cristiana insegna a continuare con sapienza ciò che è stato intrapreso per leggerezza; piegare l'animo ad abbracciare con propensione ciò che è stato imposto dalla prepotenza, e dà a una scelta che fu temeraria, ma che è irrevocabile, tutta la santità, la saviezza, diciamolo pur francamente, tutte le gioie della vocazione. E una strada così fatta, che, da qualunque labirinto, da qualunque precipizio, l'uomo capiti ad essa, e vi faccia un passo, può d'allora in poi camminare con sicurezza e di buona voglia, e arrivare lietamente a un lieto fine".
 
Torino, 24 settembre 1924. 
 
Avv. Felice Masera