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domenica 29 gennaio 2017

Calculus Minervae



Ossia il coccio che il presidente deponeva per ultimo nell’urna dei Cinquecento, l’organo legislativo nella Costituzione di Clistene, che tra l’altro esercitava anche la funzione giurisdizionale. Tale definizione era data sull’esempio del leggendario voto di Pallade Atena in favore di Oreste, ricordato da Eschilo nelle Eumenidi, che era stato giudicato colpevole di matricidio dalla maggioranza dei giurati del tribunale dell'Areopago. Il voto di Atena determina l'assoluzione di Oreste. Nel diritto romano imperiale, l'imperator aveva la stessa prerogativa: il suo voto a favore del reo (detto, appunto, calculus Minervae) determinava l'assoluzione, se la condanna era stata votata da una maggioranza ristretta, costituita dalla metà più uno dei giurati Nel mondo moderno la funzione del Presidente con voto decisivo in caso di parità è garantita in vari ordinamenti, tra i quali il Senato degli Stati uniti d’America. Nell’ ordinamento italiano contemporaneo, alla deliberazione collegiale, si provvede secondo le regole indicate dall'art. 527 c.p.p.. 
Il collegio, sotto la direzione del presidente vota, dopo aver espresso le proprie ragioni, su ciascuna questione ed il presidente raccoglie i voti. Se nella votazione sull'entità della pena o della misura di sicurezza si manifestano più di due opinioni, i voti espressi per la pena o la misura di maggiore gravità si riuniscono a quelli per la pena e la misura gradatamente inferiore, fino a che venga a risultare la maggioranza. In ogni altro caso, qualora vi sia parità di voti, prevale la soluzione più favorevole all'imputato. Il legislatore, nel disciplinare la formazione della volontà dell'organo giurisdizionale collegiale, ha seguito il criterio della deliberazione a maggioranza in base al quale le dichiarazioni singole conflueiscono nell'unica dichiarazione. Senonchè la tutela dell'interesse alla formazione dell'atto collegiale non trova una completa attuazione nel principio di maggioranza poiché negli organi collegiali paritari la formazione di una maggioranza risulta impossibile allorquando si manifestino nel collegio più opinioni e sussista parità di voti. 
Di qui la necessità di una ulteriore regola per tutelare il predetto interesse. Orbene, mentre abitualmente il legislatore dispone che, in caso di parità di voti, debba prevalere la tesi per cui ha votato il presidente del collegio, tale criterio è stato abbandonato, in attuazione del favor rei, allorchè si tratti dell'emanazione di una sentenza penale, stabilendo che debba prevalere la soluzione più favorevole all'imputato. Questa la disciplina sulla carta ma la difficoltà dell’analisi della funzione di giudizio sta nella consapevolezza che nel momento decisionale puro la logica del giudicante opera nel senso di ridurre la distanza tra il probabile e l’improbabile fino al dilemma di decidere senza, comunque,  escludere che la realtà dei fatti sia stata diversa. Si individua, in sostanza, un punto di convincimento che sfugge alla logica e si affida al “mutevole cuore del giudice” come lo definiva Calamandrei, lasciando alla motivazione la giustificazione posteriore di quanto pronunciato. 
In tale contesto si colloca la regola di giudizio prevista dall’art. 530 c.p.p. che prevede una  decisione sul fatto incerto discendere dalle valutazioni di un giudicante che in situazione di dubbio è obbligato ad assolvere. Le specifiche regole di valutazione processuale evidenziano un sistema normativo che rifiuta “intuizionismo giudiziario” contrapponendolo alle prove legali disposte dal legislatore. Il ragionamento mentale del giudice non è, infatti, quello di verificare se puo’ assolvere ma, al contrario, deve partire dalla possibilità di una condanna, anche in forza del ruolo che spetta all’art. 530, comma 2, c.p.p. che costituisce una regola di giudizio e non un’autonoma formula di proscioglimento.

giovedì 8 dicembre 2016

L’imputato era famoso. Si dichiarò innocente.



"Ponzio, ti ricordi di Gesù il Nazareno che fu crocifisso non so più per quale delitto?”
Di sicuro Pilato non avrebbe potuto immaginare che quell'atto processuale, celebrato in una sperduta provincia dell'Impero romano, avrebbe segnato indelebilmente la storia dell'umanità. Nessuna azione giudiziaria intentata contro una persona è conosciuta da un numero altrettanto grande di persone. I più celebri casi giudiziari impallidiscono di fronte alle due sbrigative sessioni processuali, durate meno di 24 ore e celebrate davanti al Sinedrio e al procuratore romano, che mandarono alla pena capitale quel predicatore di nome Gesù di Nazaret. Questi è arrestato nella notte tra il giovedì ed il venerdì nel podere detto Getsemani ai piedi del monte degli Ulivi ed è trasferito sotto scorta dinanzi all'ex sommo sacerdote Anna per un primo interrogatorio informale in una seduta notturna del Sinedrio presso l’abitazione di Caifa, con l’accusa di bestemmia. Secondo il trattato sul Sinedrio della Mishnah, la grande collezione delle tradizioni rabbiniche, i processi capitali potevano essere celebrati solo di giorno e nella sede ufficiale del Sinedrio, la cosiddetta "aula della pietra squadrata" che si trovava presso il tempio. Disattesa questa prescrizione, il sinedrio si riuniva l'indomani, all'alba, per formalizzare con una seduta vera e propria, quell'abbozzo di istruttoria, con un interrogatorio e con una sentenza.
Entriamo, ora, all'interno dell'aula sinedrale per seguire il dibattimento. Si inizia con l'escussione dei testimoni, almeno due secondo la normativa biblica. La loro deposizione riguarda le dichiarazioni poco rispettose di Gesù sul tempio, il cuore della spiritualità giudaica: "Posso distruggere il tempio di Dio e ricostruirlo in tre giorni". Sappiamo che in realtà Gesù in quell'occasione aveva usato il tempio come simbolo del nuovo culto che egli voleva inaugurare nel suo corpo glorioso. Gesù a queste accuse oppone uno strano silenzio. Per indirizzare l'interrogatorio verso uno sbocco meno vago, il sommo sacerdote formula una precisa domanda, a cui Gesù replica con una risposta altrettanto precisa. 
Eccola nella redazione di Marco: "Sei tu il Cristo, il Figlio di Dio benedetto?". Gesù rispose: "Io lo sono! E vedrete il Figlio dell'uomo seduto alla destra della Potenza e venire sulle nubi del cielo!" (14, 61-62). Gesù agli occhi di Caifa non si arroga solo il titolo di messia davidico, ma anche quella misteriosa qualità trascendente, fondendoli insieme nella sua persona e facendo così scattare il presidente del Sinedrio: "Ha bestemmiato!". Col gesto rituale dello "stracciarsi le vesti" in segno di lutto e di profonda emozione davanti a uno scandalo o a un'ignominia, Caifa sollecita l'approvazione della sentenza: "Che ve ne pare?". E l'assemblea ratifica: "È reo di morte!".
Si apre, così, il secondo atto di quel giorno, il più lungo della storia, che contempla l’accusa di alto tradimento e lesa maestà. Gesù è trasferito al "pretorio" del procuratore romano, poiché il Sinedrio non ha il potere di dare la morte, essendo un consesso religioso. Il capo d'imputazione avanzato dal Sinedrio è ora di tipo politico, per poter essere accolto dal tribunale romano: "Abbiamo trovato costui che sobillava il nostro popolo, impediva di dare tributi a Cesare e affermava di essere il Cristo re" (Luca, 23, 2). 
Pilato interroga l'imputato con distacco ottenendo risposte reticenti ("Tu l'hai detto") o il silenzio. Comprendendo di essere di fronte a un caso carico di sottintesi, di ambiguità e di sfumature, Pilato non ratifica subito l'accusa giudaica, ma apre un supplemento di istruttoria. Ricorre, poi, all'applicazione del "privilegio pasquale", per evitare la condanna di un uomo che non gli era sembrato colpevole di alcun reato. Il privilegio pasquale è un atto di clemenza in cui "Il governatore era solito, per ciascuna festa di Pasqua, rilasciare al popolo un prigioniero, a loro scelta. Avevano in quel tempo un prigioniero famoso, detto Barabba. Pilato disse loro: Chi volete che vi rilasci: Barabba o Gesù chiamato il Cristo?"(Matteo, 27, 15-17). Il popolo sceglie Barabba,Crucifige!!” urlava rivolgendosi a Gesù. Solo allora Pilato proclamò la pena di morte per il crimen laesae maiestatis che ,nelle province, di regola, era comminata con la croce. Normalmente, la condanna alla crocifissione suonava: “Ibis in crucem!”. La folla informe salva il potere dall’imbarazzo di una scelta scomoda. Molto probabilmente è composta dalle stesse persone che pochi giorni prima avevano intonato l'Osanna all'ingresso di Gesù a Gerusalemme…

domenica 5 giugno 2016

Fine pena mai: la morte viva



Aldo Moro nelle sue lezione universitarie avvertiva gli studenti, ma forse anche il legislatore e i politici: «Ricordatevi che la pena non è la passionale e smodata vendetta dei privati: è la risposta calibrata dell’ordinamento giuridico e, quindi, ha tutta la misura propria degli interventi del potere sociale, che non possono abbandonarsi ad istinti di reazione e di vendetta, ma devono essere pacatamente commisurati alla necessità, rigorosamente alla necessità, di dare al reato una risposta quale si esprime in una pena giusta». Oggi affrontiamo un tema che certamente farà discutere ma che non si uò tralasciare a lungo ormai è necessario prendere una ferma posizione su quelli che dovrebbero essere diritti costituzionalmente garantiti. L'ordinamento italiano, che contempla la pena dell'ergastolo ma consente di mitigarne il rigore grazie ai benefici penitenziari, preclude a determinate categorie di ergastolani (c.d. ostativi) l'accesso a tali misure premiali. Sono 1.600 (erano 408 all’approvazione della legge) gli ergastolani in carcere condannati per reati che impediscono il loro accesso alle alternative al carcere e, tra esse, alla liberazione condizionale, l’unico istituto che consente a chi abbia già scontato almeno 26 anni di pena detentiva di non morire in carcere. Sono, insomma “ergastolani ostativi”. 
Pochi sanno che la pena dell’ergastolo di oggi non è più quella di una volta, perché ora i tipi di ergastolo sono due: quello normale, che manca di umanità, proporzionalità, legalità, eguaglianza ed educatività, ma ti lascia almeno una speranza, per quanto incerta, di poter uscire in permesso dopo 10 anni, dopo 20 anni in semilibertà e dopo 26 anni in libertà condizionale; poi c’è quello ostativo, che ti condanna a morte facendoti restare vivo, senza nessuna speranza. Per meglio comprendere la questione bisogna avere presente la legge 356/92 che introduce nel sistema di esecuzione delle pene detentive una sorta di doppio binario, nel senso che, per taluni delitti ritenuti di particolare allarme sociale, il legislatore ha previsto un regime speciale, che si risolve nell’escludere dal trattamento extramurario i condannati, a meno che questi collaborino con la giustizia: per questo motivo molti ergastolani non possono godere di alcun beneficio penitenziario e di fatto sono condannati a morire in carcere. La finalità rieducativa della pena? 
Se per “rieducazione” intendiamo un concreto processo di reinserimento sociale cui deve tendere la pena – e non una semplice emenda morale che il reo raggiunge chiuso nella sua cella al termine dei suoi giorni – è del tutto evidente che una pena senza fine (“MAI” era scritto nel fascicolo degli ergastolani alla voce “fine pena”, prima che l’automazione informatica imponesse un codice numerico: 99/99/9999) non è costituzionalmente ammissibile. Inoltre, un’adeguata valutazione dell’altro principio costituzionale per il quale le pene non devono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità, sarebbe anch’esso sufficiente a motivare l’incostituzionalità di una misura che non offre alcun fine alla vita umana se non quella di soffrire e morire per essere d’esempio negativo ad altri.
Tutti questi argomenti erano già in scena quando il legislatore decise che bisognasse impedire legalmente ai condannati per delitti gravi o legati alla criminalità organizzata di accedere alle misure alternative.
Ma allora molti credevano veramente che in Italia l’ergastolo mai si scontasse per intero. Oggi no. Con la preclusione all’accesso alle alternative, la gran parte degli ergastolani sconta la propria pena per intero, fino al 99/99/9999.


La preclusione alle alternative stabilita dalla legge non è assoluta, ma può essere aggirata collaborando con la giustizia, o dimostrando di non poterlo fare, di non aver nulla da dire. E dunque, secondo la Corte Costituzionale, l’ergastolano che non accede alle alternative è causa del suo stesso male. Evidentemente ai giudici della Corte non è venuto in mente che quel modo di sfuggire alla morte civile ha qualcosa di terribilmente inquisitorio: un pubblico ministero sente che io potrei sapere qualcosa su un fatto di reato; sente, ma non sa (altrimenti non me lo chiederebbe e procederebbe altrimenti); se io gli confermo le sue sensazioni, in cambio potrò avere una prospettiva di liberazione condizionale, e magari prima qualche permesso-premio; se non gli confermo quelle sensazioni (perché non so o perché “non voglio mettere un altro al posto mio”, come dice Carmelo Musumeci) marcirò in galera per il resto della mia vita. Non chiamiamola tortura, per carità, ma libera scelta proprio no.

lunedì 22 febbraio 2016

Stat sua cuique dies

"A ciascuno è dato il suo giorno" è un frammento delle parole di Giove a Ercole, nel X libro dell' Eneide di Virgilio. Ercole, l'Alcide, piange per l'approssimarsi della morte di Pallante per mano di Turno, e il padre degli dèi lo consola con queste parole. Esistono dei casi in cui la legge prevede che sui documenti venga apposta una data certa. Ed il pensiero corre al testamento. La data certa, di fatto, consiste nella prova della formazione di un documento in un determinato arco temporale o, comunque, nella prova della sua esistenza anteriormente ad uno specifico evento o una specifica data. In mancanza di tali elementi, la legge riconosce alle parti la possibilità di dedurre e dimostrare con ogni mezzo di prova il momento in cui essa è stata formata. Questo perché la data è un elemento spontaneamente posto dai firmatari del documento e nulla garantisce che gli stessi non abbiano indicato un giorno diverso da quello effettivo (per esempio, ricorrendo alla retrodatazione). Così, per esempio, si potrebbe dimostrare di aver firmato un contratto o una quietanza in un determinato giorno e occasione grazie ad eventuali testimoni, presenti sul posto. 
La prova testimoniale, però, a differenza di quella documentale, è liberamente valutabile dal giudice e non sempre garantisce margini di certezza Tuttavia, in alcuni casi, anche in assenza della data, l’elemento temporale di formazione e firma è comunque ricavabile da altri elementi esterni (si pensi al caso della raccomandata ove fa fede il timbro postale che certamente supera l’indicazione delle parti; si pensi anche al telegramma o al fax o alla posta elettronica certificata dove l’attestazione inviata del gestore della PEC garantisce la certezza della data di spedizione e di consegna). L’argomento si collega alla disciplina civilistica in materia di prove documentali e, in particolare, a quanto previsto dagli artt. 2703 e 2704 c.c., dai quali si desumono gli strumenti tipicamente utilizzabili, appunto, per l’attribuzione di una data certa ai documenti. Oltre alla redazione di un atto pubblico, all’autenticazione di un notaio o altro pubblico ufficiale ed alla registrazione dell’atto presso un ufficio pubblico, la legge prevede che possa conferire data certa anche ogni altro fatto che stabilisca in modo ugualmente certo l’anteriorità della formazione del documento (art. 2704 c.c., 3 comma). 
Per conferire data certa a un documento si ricorre di norma alla registrazione del documento, attraverso pagamento della relativa imposta di registro. Nel caso in cui la registrazione non sia possibile, come nel caso di morte o sopravvenuta impossibilità fisica del sottoscrittore, si ricorre alla riproduzione della scrittura in un atto pubblico. Ci sono diversi modi per applicare la data certa sui documenti, ma il più semplice è quello di ricorrere ad un ufficio postale che provvederà all’apposizione di un timbro. Prima di recarsi all’ufficio postale, è bene assicurarsi che il documento presenti dei determinati requisiti: deve formare un corpo unico (ovvero deve essere stampato e rilegato in un modo che non permetta l’aggiunta o la rimozione di pagine) e sulla prima pagina deve essere presente la dicitura “si richiede l’apposizione del timbro per la data certa”, seguita da data e firma. I giudici di merito, però, nella nota sentenza della Suprema Corte n. 13912/2007 si sono ritenuti contrari a questa modalità perché di regola il timbro non è apposto nello stesso foglio in cui è riportata la scrittura, per cui si afferma che il timbro apposto sulla busta non attribuisce certezza giuridica al contenuto in essa racchiuso. Molto semplicemente, basterà recarsi all’ufficio postale e richiedere il servizio di data certa. Sul primo foglio del documento va apposta l’affrancatura con i francobolli, che verrà annullata con l’apposizione del timbro da parte dell’ufficio postale (in pratica come se dovessimo spedire il documento). Il timbro va apposto sulla prima pagina, dove viene anche indicato il numero delle pagine e la dicitura “a corpo unico”. È onere di chi contesta la certezza della data provare che è stato apposto il timbro su un foglio bianco, che solo successivamente è stato riempito (Trib. Mantova sent. del 13.06.2003). Il timbro apposto in un pubblico ufficio equivale a un’attestazione autentica che il documento è stato inviato nel giorno in cui essa è stata apposta come conferma la Cassazione nella sent. n. 8438/2012. 
Il Codice dell’Amministrazione Digitale ha introdotto una serie di semplificazioni legate all’utilizzo delle procedure informatiche che si applicano anche ai privati; in particolare, ai fini della data certa il decreto prevede all’articolo 20 comma 3 che “la data e l’ora del documento informatico sono opponibili ai terzi se apposte in conformità alle regole tecniche sulla validazione temporale”, tra queste l’apposizione della cosiddetta marca temporale sui documenti informatici: il sistema basa la propria modalità di certificazione della marca temporale su un procedimento informatico regolamentato dalla legge, che permette di attribuire ad un oggetto digitale o documento informatico una data ed un orario in modo certo ed opponibile a terzi. La marca temporale può essere anche associata alla firma digitale su documento sia informatico con la conseguenza che, in caso di documenti cartacei, contratti, fax, etc, prima di tutto occorrerà effettuare una scansione, per poi apporre al documento informatico così ottenuto la data certa. E così s’è fatto tardi molto presto, direbbe il Dr. Seuss.