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martedì 14 giugno 2016

Giro giro tondo DASPO al mondo.......


.....e tutti giù per terra!
I recenti fatti violenti che hanno riguardato la sproporzionata reazione dei tifosi russi dopo la partita Inghilterra – Russia agli Europei 2016 richiede una necessaria riflessione sulla violenza nei campi sportivi e sulle forme giuridiche di sanzione e repressione. La UEFA, per quel potere sanzionatorio che le compete secondo i dettami della Federazione ha aperto ufficialmente un procedimento disciplinare nei confronti della Russia. In Italia, il potere sanzionatorio spetta alla FGC che lo esercita erogando sanzioni disciplinari in materia sportiva ma senza sostituirsi all’ordinamento nazionale che espone il proprio arsenale repressivo. Grazie, infatti, ad alcune delle misure adottate negli ultimi anni, gli episodi di violenza all'interno degli impianti sportivi sono in forte diminuzione.
La legislazione in materia, introdotta con decretazione d'urgenza dopo i tragici eventi degli anni 2005 ("Decreto Pisanu") e 2007 ("Decreto Amato"), ha ampliato il contesto logistico e temporale dei reati da stadio, fino a integrare la punibilità di fatti (quali di lancio, uso e possesso di oggetti pericolosi ) che siano consumati non solo nei luoghi in cui si svolgono le manifestazioni sportive, ma anche «in quelli interessati alla sosta, al transito o al trasporto di coloro che partecipano o assistono alle manifestazioni medesime o, comunque, nelle immediate vicinanze di essi» e fino a 24 ore prima o dopo la partita.
Per di più, oltre che estesa anche alla violazione del Daspo nelle sue varie ipotesi, la facoltà di arresto è ora consentita «entro quarantotto ore» dal fatto (cosiddetta flagranza differita), anche mediante un'efficace utilizzazione degli strumenti di accertamento e di indagine offerti dalle nuove disposizioni in materia di videosorveglianza (facoltà di recente prorogata su iniziativa del ministro dell'Interno Angelino Alfano fino al mese di giugno del 2016).
È stata anche introdotta una nuova figura di reato aggravato (articolo 583-quater del Cp: «lesioni personali gravi o gravissime a un pubblico ufficiale in servizio di ordine pubblico in occasione di manifestazioni sportive»), in forza della quale sono punibili con la reclusione da 4 a 10 anni le lesioni gravi e da 8 a 16 anni le lesioni gravissime (tale norma è ora applicabile anche qualora vittima del reato sia uno steward), mentre è ora considerata circostanza aggravante del reato di cui all'articolo 338 del Cp (violenza e minaccia a pubblico ufficiale), ai sensi dell'articolo 339 del Cp, anche «la violenza o la minaccia (...) commessa mediante il lancio o l'utilizzo di corpi contundenti o altri oggetti atti a offendere, compresi gli artifici pirotecnici, in modo da creare pericolo alle persone».
Dunque, la legislazione vigente consente amplissimi margini di intervento repressivo ma la violenza dentro e, soprattutto, fuori dagli stadi è ben lungi dal potersi considerare debellata.
La violenza si è spostata tragicamente al di fuori degli stadi, nelle vie d'accesso e perfino in luoghi certo non prossimi all'impianto sportivo. Con alcuni interventi “chirurgici” il parlamento si è adoperato per rendere ora più precise ora più maneggevoli per gli operatori le norme che consentono di sanzionare chi si rende protagonista di condotte illegali durante le competizioni sportive; e in più ha introdotto qualche novità che obbliga le società calcistiche a farsi carico almeno in parte delle spese che lo Stato deve affrontare per garantire l'ordine pubblico negli stadi.
In questa sede ci soffermiamo sul Daspo, misura di prevenzione che vieta al soggetto ritenuto pericoloso di accedere in luoghi in cui si svolgono determinate manifestazioni sportive. Il provvedimento viene emesso dal questore e la sua durata va da uno a cinque anni, in base alle modifiche del cosiddetto Decreto Pisanu varato nel febbraio 2007 dopo gli scontri di Catania, che hanno causato la morte dell'Ispettore di Polizia Filippo Raciti.
Può essere accompagnato dall'obbligo di presentazione ad un ufficio di polizia in concomitanza temporale delle manifestazioni vietate. Esso viene sempre notificato all'interessato ma, nel caso in cui ad esso si affianchi anche la prescrizione della firma, esso è comunicato anche alla Procura della Repubblica presso il Tribunale competente. Entro 48 ore dalla notifica, ne deve seguire la convalida da parte del G.i.p. presso il medesimo Tribunale, solo ed unicamente per la parte attenente la firma. il Questore può autorizzare l'interessato, in caso di gravi e documentate esigenze, a comunicare per iscritto il luogo in cui questi possa recarsi per apporre le firme d'obbligo in concomitanza delle manifestazioni sportive. il questore può aumentare la durata del Daspo già in corso di esecuzione, se violato, fino a otto anni senza quindi sanzionare la violazione del divieto  con l'applicazione di un altro divieto ma con l'aumento di durata dello stesso provvedimento. Deve ritenersi tuttavia che, anche in assenza di esplicita indicazione, tale ampliamento del divieto con prescrizione debba - al pari del provvedimento nuovo - essere sottoposto alla convalida del Gip. In arrivo il testo sulla sicurezza, multe e daspo , formato da una ventina di articoli, concordato tra Viminale e Anci. Ai sindaci il potere di firmare ordinanze permanenti, stretta sulle manifestazioni. E contempla la possibilità di “ordinanze stabili”, cioè che non possono essere impugnate di fronte ai tribunali amministrativi, che ovviamente non trovano d'accordo i giuristi.







domenica 5 giugno 2016

Fine pena mai: la morte viva



Aldo Moro nelle sue lezione universitarie avvertiva gli studenti, ma forse anche il legislatore e i politici: «Ricordatevi che la pena non è la passionale e smodata vendetta dei privati: è la risposta calibrata dell’ordinamento giuridico e, quindi, ha tutta la misura propria degli interventi del potere sociale, che non possono abbandonarsi ad istinti di reazione e di vendetta, ma devono essere pacatamente commisurati alla necessità, rigorosamente alla necessità, di dare al reato una risposta quale si esprime in una pena giusta». Oggi affrontiamo un tema che certamente farà discutere ma che non si uò tralasciare a lungo ormai è necessario prendere una ferma posizione su quelli che dovrebbero essere diritti costituzionalmente garantiti. L'ordinamento italiano, che contempla la pena dell'ergastolo ma consente di mitigarne il rigore grazie ai benefici penitenziari, preclude a determinate categorie di ergastolani (c.d. ostativi) l'accesso a tali misure premiali. Sono 1.600 (erano 408 all’approvazione della legge) gli ergastolani in carcere condannati per reati che impediscono il loro accesso alle alternative al carcere e, tra esse, alla liberazione condizionale, l’unico istituto che consente a chi abbia già scontato almeno 26 anni di pena detentiva di non morire in carcere. Sono, insomma “ergastolani ostativi”. 
Pochi sanno che la pena dell’ergastolo di oggi non è più quella di una volta, perché ora i tipi di ergastolo sono due: quello normale, che manca di umanità, proporzionalità, legalità, eguaglianza ed educatività, ma ti lascia almeno una speranza, per quanto incerta, di poter uscire in permesso dopo 10 anni, dopo 20 anni in semilibertà e dopo 26 anni in libertà condizionale; poi c’è quello ostativo, che ti condanna a morte facendoti restare vivo, senza nessuna speranza. Per meglio comprendere la questione bisogna avere presente la legge 356/92 che introduce nel sistema di esecuzione delle pene detentive una sorta di doppio binario, nel senso che, per taluni delitti ritenuti di particolare allarme sociale, il legislatore ha previsto un regime speciale, che si risolve nell’escludere dal trattamento extramurario i condannati, a meno che questi collaborino con la giustizia: per questo motivo molti ergastolani non possono godere di alcun beneficio penitenziario e di fatto sono condannati a morire in carcere. La finalità rieducativa della pena? 
Se per “rieducazione” intendiamo un concreto processo di reinserimento sociale cui deve tendere la pena – e non una semplice emenda morale che il reo raggiunge chiuso nella sua cella al termine dei suoi giorni – è del tutto evidente che una pena senza fine (“MAI” era scritto nel fascicolo degli ergastolani alla voce “fine pena”, prima che l’automazione informatica imponesse un codice numerico: 99/99/9999) non è costituzionalmente ammissibile. Inoltre, un’adeguata valutazione dell’altro principio costituzionale per il quale le pene non devono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità, sarebbe anch’esso sufficiente a motivare l’incostituzionalità di una misura che non offre alcun fine alla vita umana se non quella di soffrire e morire per essere d’esempio negativo ad altri.
Tutti questi argomenti erano già in scena quando il legislatore decise che bisognasse impedire legalmente ai condannati per delitti gravi o legati alla criminalità organizzata di accedere alle misure alternative.
Ma allora molti credevano veramente che in Italia l’ergastolo mai si scontasse per intero. Oggi no. Con la preclusione all’accesso alle alternative, la gran parte degli ergastolani sconta la propria pena per intero, fino al 99/99/9999.


La preclusione alle alternative stabilita dalla legge non è assoluta, ma può essere aggirata collaborando con la giustizia, o dimostrando di non poterlo fare, di non aver nulla da dire. E dunque, secondo la Corte Costituzionale, l’ergastolano che non accede alle alternative è causa del suo stesso male. Evidentemente ai giudici della Corte non è venuto in mente che quel modo di sfuggire alla morte civile ha qualcosa di terribilmente inquisitorio: un pubblico ministero sente che io potrei sapere qualcosa su un fatto di reato; sente, ma non sa (altrimenti non me lo chiederebbe e procederebbe altrimenti); se io gli confermo le sue sensazioni, in cambio potrò avere una prospettiva di liberazione condizionale, e magari prima qualche permesso-premio; se non gli confermo quelle sensazioni (perché non so o perché “non voglio mettere un altro al posto mio”, come dice Carmelo Musumeci) marcirò in galera per il resto della mia vita. Non chiamiamola tortura, per carità, ma libera scelta proprio no.

domenica 7 febbraio 2016

Per la gioia di Sgarbi

E’ ufficialmente partita il 15/01/2016 l’opera di depenalizzazione. In base, infatti al nuovo decreto legislativo diverse le fattispecie criminose sono state trasformate in illeciti amministrativi comportando modifiche al codice penale allo scopo di deflazionare il sistema penale. Tra le varie tipologie di reato s’inserisce anche il reato d’ingiuria disciplinato all’art. 594 c.p.. Le modifiche delle citate fattispecie in illeciti amministrativi riguarda anche le violazioni commesse prima dell’entrata in vigore del decreto suddetto (il cosiddetto principio del favor rei), mentre rimangono ferme le condanne passate in giudicato, divenute appunto definitive. 
Ad ogni modo, si ricorda che il colpevole mantiene la facoltà di potersi difendere contro la nuova sanzione, intentando opposizione e avendo così modo di dimostrare la propria condizione di innocenza. Per quanto attiene, poi, ai reati modificati in illeciti civili, la sanzione pecuniaria viene applicata dal giudice competente a conoscere dell’azione di risarcimento del danno, al termine del giudizio solo nel caso in cui accolga la domanda di risarcimento proposta dalla persona offesa cui viene lasciata la facoltà di poter decidere se se agire o meno contro il soggetto, non essendo prevista la trasmissione d’ufficio degli atti dal giudice penale o dalla Procura a quello civile competente all’irrogazione della nuova sanzione. Nel caso di condanna, lo Stato, rimasto fuori dal procedimento, ha così modo di ripresentarsi per incassare la sanzione civile. Qualora, al contrario, la vittima decida di non agire, il fatto resta in tal modo impunito mentre il soggetto responsabile non sarà tenuto a versare nulla, nemmeno nei confronti dello Stato.

  REATI CONTRO LA PERSONA
Ingiuria (Articolo 594)
Reclusione fino a 6 mesi o multa fino a 516 € – Reclusione fino a 1 anno o multa fino a 1.032 € (con attribuzione di fatto determinato)
Sanzione civile da 100 a 8.000 € – Sanzione pecuniaria civile da 200 a 12.000 € (con attribuzione di fatto determinato o commesso in presenza di più persone)


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domenica 15 novembre 2015

La tenuità del fat(T)o



Il 2 aprile 2015 è entrato in vigore il D.Lgs. 16 marzo 2015, n. 28 che introduce nel nostro ordinamento penale un nuovo istituto giuridico: la non punibilità per particolare tenuità dell’offesa. Si tratta di un complesso apparato per cui saranno i Giudici i protagonisti della depenalizzazione potendo stabilire quali fatti non punire e quali, invece, meritano di essere perseguiti. Difatto, introducendo l’art. 131 bis nel codice di procedura penale, il legislatore consente il proscioglimento per reati (anche d’impatto sociale) puniti fino a cinque anni di reclusione, nei casi in cui il P.M. od il Giudice ravvisino la lieve entità del fatto. La prima conseguenza è che la pena prevista è talmente alta che comprende un numero eccezionale di reati, fra i quali, soltanto per citarne alcuni: la corruzione impropria, l’abuso e l’omissione di atti d’ufficio, molte ipotesi di falso, alcuni reati tributari (la dichiarazione infedele, l’omessa dichiarazione, l’omesso versamento dell’IVA e della ritenuta d’acconto) il falso in bilancio. Chiaramente non possono godere della non punibilità: i recidivi; i delinquenti abituali, professionali o per tendenza; chi abbia commesso più reati della stessa specie; le condotte plurime abituali o ripetute. Nemmeno, certamente, chi abbia agito per motivi abietti e futili adoperato sevizie, o profittato delle condizioni di minorata difesa della vittima, anche minorenne. L’uso di sevizie difficilmente avrebbe potuto essere considerato suscettivo di positiva valutazione!! Vi è di più, la lieve tenuità non può mai riguardare il reato di lesioni gravissime (si tratta di quelle che abbiano comportato la perdita di un senso o di un organo; tuttavia che è implicitamente consentita la non punibilità delle lesioni gravi (in cui si presenta l’indebolimento permanente di un senso o di un organo). Non è tutto: il giudizio di lieve entità si iscrive sul casellario giudiziale (la fedina penale) e nei procedimenti correlati (civile ed amministrativo) alla stregua di una condanna. La diffusione di elenchi cui si applicherebbe ha causato l’erroneo convincimento che il decreto legislativo comporti la loro depenalizzazione. La differenza è palese: con la depenalizzazione, tutti i reati, a prescindere dalle modalità con le quali in concreto si sono consumati, vengono meno; con la lieve entità , non sono punibili i reati, sanzionati in astratto nel massimo con la pena di cinque anni di reclusione o con la pena pecuniaria, solo qualora siano in concreto scarsamente offensivi. Nel primo caso, il legislatore stabilisce a priori le condotte che non costituiscono più reato; nel secondo caso, il legislatore attribuisce al giudice il potere di verificare. Per questo motivo, il decreto prevede che avverso la richiesta di archiviazione presentata dal P.M. l’indagato possa presentare opposizione ed ottenere un’udienza camerale davanti al Gip nella quale persuaderlo della sua innocenza invece che del modesto rilievo del suo comportamento illecito. Tecnicamente, il PM, verificata la ricorrenza delle condizioni volute dalla legge, deve chiedere l’archiviazione. Della richiesta deve essere dato avviso sia all’imputato che alla parte offesa, anche se quest’ultima, con la denuncia o querela, non abbia chiesto di essere avvisata in caso di richiesta di archiviazione. Resta salva la facoltà per il Giudice di rigettare la richiesta di archiviazione e provvedere ai sensi dell’art. 409 c.p.p.
Concludendo sembra evidente che una seria verifica della sussistenza dei presupposti, dell’effettiva offensività del fatto e della personalità del reo sono incompatibili con il dichiarato scopo deflattivo dell’istituto; riducendo l’obiettivo della riforma, alla scomparsa dei fascicoli bagatellari che affollano i nostri uffici penali; cosicchè le esigenze di economia processuale prevalgano su quelle di legalità ed obbligatorietà dell’azione penale. La particolare tenuità del fatto deve sperimentare la giustizia penale riparativa e riconciliativa, diffondendo protocolli secondo i quali la non punibilità è riconosciuta qualora l’imputato abbia, spontaneamente e prima del processo, provveduto ad eliminare le conseguenze dannose del reato od a riconciliarsi con la vittima. Diversamente, il principio di offensività venga strumentalizzato per “snellire” i ruoli penali.