giovedì 5 maggio 2016

La calunnia è un venticello





Sufficienti non vi sono fieno e paglia a tappar la bocca alla canaglia. La calunnia è il fatto di colui che scientemente, con denuncia o querela diretta all'autorità giudiziaria, incolpa di un reato taluno che egli sa essere innocente. Il codice penale italiano comprende la calunnia tra i delitti contro l'amministrazione della giustizia e lo disciplina all’art. 368 c.p. Si parla comunemente di calunnia formale e calunnia materiale per distinguere le due diverse ipotesi previste dalla norma (presentazione di denuncia ovvero simulazione di un reato). La calunnia era punita presso gli Ebrei e gli Egizi con la stessa pena che si sarebbe dovuta applicare o si era applicata all'ingiustamente accusato. Apprendiamo da Plutarco che, in Grecia, i calunniatori di Focione furono tutti condannati a morte. In Roma la falsa accusa fu elevata a reato speciale della lex Remmia. Oggi la pena edittale prevista dal codice è compresa tra un minimo di due anni e un massimo di sei anni, quindi con una pena notevolmente inferiore agli anni passati quasi a voler calmierare l’onore (la già depenalizzata ingiuria ne sa qualcosa!). Il delitto di calunnia ha natura plurioffensiva, nel senso che oltre a ledere l'interesse dello Stato alla corretta amministrazione della giustizia, offende anche l'onore dell'incolpato, il quale è conseguentemente legittimato all'opposizione alla richiesta di archiviazione del relativo procedimento. 
Ai fini della configurabilità del reato di calunnia - che è di pericolo - non è richiesto l'inizio di un procedimento penale a carico del calunniato, occorrendo soltanto che la falsa incolpazione contenga in sé gli elementi necessari e sufficienti per l'esercizio dell'azione penale nei confronti di una persona univocamente e agevolmente individuabile. Vi sono “concrete incongruenze” nel sistema penale che possono rendere di fatto poco efficace la perseguibilità di chi si macchia di un reato di calunnia, ove si procrastini l’esercizio dell’azione al proscioglimento irrevocabile del calunniato. In particolare, il decorrere della prescrizione per questo reato durante la celebrazione dei diversi gradi del processo alla vittima di una accusa infondata può ben portare alla non punibilità del calunniatore perché il suo reato è prescritto. Un reato difficile da perseguire che però trova maggior forza davanti ad una pronuncia di archiviazione che, emessa nei prodromi processuali, scansa abilmente il pericolo della prescrizione rendendo, forse, giustizia al calunniato. Certo, perché nell’epoca in cui stiamo vivendo un momento di grande crisi economica, sociale e dell'uomo stesso ci torna alla memoria il dipinto del Botticelli che rappresenta, appunto,l’Allegoria della Calunnia
L’opera ci racconta il dramma allusivo che nasce con l’uomo verso l’ingiustizia. Nella riproduzione artistica vediamo il Re Mida che si riconosce perché ha le orecchie d’asino, (vediamo nel particolare sopra). Il re sta seduto su un grande trono e si fa consigliare da due personaggi negativi, pessimi che gli bisbigliano frasi e parole alle orecchie. Questi due personaggi rappresentano sia l’Ignoranza che il Sospetto. Davanti al re vediamo il Livore cioè il rancore che l'artista rappresenta vestito di nero come uno straccione col cappuccio mentre ha una mano alzata a simbolo di grande solennità e che indica il re. Questo strano personaggio tiene ben stretto per un braccio un personaggio femminile, la Calunnia rappresentata da una bella e vanitosa donna che si fa acconciare i suoi bei capelli da altre due donne che raffigurano Insidia e Invidia. La Calunnia tiene in una mano un torcia che però non fa luce a simbolo di una falsa conoscenza e tira per i capelli con l’altra mano l’Innocente, cioè lo sfortunato calunniato raffigurato quasi nudo mentre tiene le mani unite come in supplica. Quest'ultimo viene portato quasi a forza davanti al re Mida. Sulla sinistra del dipinto vediamo ancora altri due personaggi che rappresentano uno il Rimorso, raffigurato come una vecchia incappucciata che quasi stordita dai fatti guarda la Nuda Verità che alza gli occhi e che indica come unica e vera giustizia quella Divina, del cielo. Ci auguriamo, invece, che la Verità abbia il coraggio di vendicare i torti subiti.












domenica 10 aprile 2016

I dolori del coniuge inerte




Ai giorni nostri la disoccupazione è un tema più che attuale. E appare interessante verificare come essa incide sull’obbligo al mantenimento dei figli nell’ipotesi di genitori separati/divorziati. E’ noto, infatti, che ai sensi e per gli effetti degli artt. 147 e 148 c.c. i genitori (nel corso dell’unione, sia matrimonio o convivenza more uxorio) siano obbligati a provvedere al mantenimento dei figli, in concorso tra loro e secondo le rispettive proprie capacità economiche. L’art. 155 c.c. prevede che tale obbligo in capo ai genitori e secondo la distribuzione del carico e la quantificazione decisa dal giudice (in difetto di accordo tra i genitori), permanga anche dopo la loro separazione/divorzio. La ratio è quella di garantire che il minore non venga pregiudicato nella sua serena crescita e formazione a causa della fase patologica attraversata dalla coppia genitoriale ma che, al contrario, le proprie normali esigenze vengano sempre e comunque soddisfatte, come avviene nella famiglia unita ex art. 148 c.c. 
La Cassazione ha perciò stabilito s che in tema di assegno di mantenimento da parte dell´altro coniuge, non è sufficiente allegare meramente uno stato di disoccupazione, dovendosi verificare, avuto riguardo a tutte le circostanze concrete del caso, la possibilità del coniuge richiedente di collocarsi o meno utilmente, ed in relazione alle proprie attitudini, nel mercato del lavoro. Se il genitore è disoccupato deve comunque essere disposto, a suo carico, l´obbligo di mantenimento in favore del figlio, che va quantificato in base alla capacità lavorativa generica (Cass. Civ. , sez. I, sentenza 27 dicembre 2011 n° 28870). Ancora, in tema di mantenimento dei figli minori, la fissazione di una somma a titolo di contributo a carico del genitore non convivente può venire correlata, non tanto alla quantificazione delle entrate derivanti dall´attività professionale svolta da quest´ultimo, quanto, piuttosto, ad una valutazione complessiva del minimo essenziale per la vita e la crescita di un bambino. 
Ne deriva che un genitore, ancorchè sia disoccupato e non percepisca alcun reddito, non può sottrarsi all´obbligo di mantenimento dei figli, dovendosi attivare e fare tutto il possibile per garantire alla prole un idoneo e dignitoso tenore di vita. Ciò detto, la domanda sorge spontanea ma, quando invece è il coniuge affidatario, non obbligato, che richiede la revisione o modifica del contributo al mantenimento perché è lui/lei quello disoccupato? Gli inquilini del Palazzaccio, con la sentenza n. 12121 del 2 luglio 2004, confermata anche dalla recente sentenza n. 11870 del 9 giugno 2015, già precisarono che l'inattività lavorativa non è necessariamente indice di scarsa diligenza nella ricerca di un lavoro. Tuttavia laddove sia provato il rifiuto di una concreta opportunità di occupazione, in tal caso lo stato di inoperosità potrebbe essere interpretato come rifiuto o non avvertita necessità di fonti reddituali, nonostante la possibilità di reperirle, il che condurrebbe ad elidere il diritto di ricevere dal coniuge, a titolo di mantenimento, le somme che il richiedente avrebbe potuto ottenere quale retribuzione per l'attività lavorativa rifiutata o dismessa senza giusto motivo. 
Analogamente, anche successivamente, la cifra elargita dall’ex marito a titolo di assegno di mantenimento, può essere revisionata e ridimensionata se l’ex moglie non si impegna a trovare un’occupazione anche a tempo parziale, a meno che la stessa non possa dimostrare una comprovata inabilità, non scientificamente sconfessabile o difficoltà oggettive di inserimento nel mercato del lavoro che non siano dipese da un atteggiamento di inerzia nella ricerca attiva o dalla negazione di una doverosa adattabilità e fungibilità nell’articolato meccanismo di gestione delle procedure di incontro tra domanda e offerta, agevolando la costituzione del rapporto di lavoro. Non avrà diritto quindi ad alcun contributo la donna determinata ad oziare. Cade così il diffuso il pregiudizio che i procedimenti giudiziari relativi a separazione, divorzio e affidamento dei minori in Italia siano viziati dalla discriminazione di genere.





domenica 27 marzo 2016

Gallina scripsit

Questo articolo ha la presunzione di autodedicarsi a due amici Daniela Rossi e Alessandro Coppola che con la parola, la prima, e con le illustrazioni, il secondo, danno voce forte alla comunicazione. Questo a dimostrazione, opposta e contraria a quanto i giudici fanno ultimamente, che con la passione, la buona volontà e qualcosa da manifestare e rivelare; si dialoga.

La motivazione della sentenza, sebbene si tratti del provvedimento “a contenuto decisorio costante, nel percorso estremo di “semplificazione” degli atti processuali civili  è spesso “succinta”, quasi fosse un’ordinanza. In parallelo – però – norme, prassi, orientamenti anche della Cassazione spingono verso una sempre più complessa strutturazione degli atti di parte. Gli avvocati scrivono sempre più fin dal primo grado e specie in fase di impugnazione divengono tutti vittima d’una super-scrittura fobica, temendo, come infatti sempre più spesso fondatamente temono, di incappare nelle tagliole dell’inammissibilità, del difetto di specificità, della carenza argomentativa sul singolo motivo. Ripetere il già detto sembra il prezzo da pagare per non rischiare di sottacere l’essenziale. Assistiamo così a una forte divaricazione tra atti e provvedimenti: mentre all’avvocato è richiesto un impegno di scrittura addirittura ossessivo, per il giudice le cose stanno ormai molto diversamente.
Un piccolo omaggio ad un nuovo amico
A lui si chiede di decidere di più e di farlo senza inutili formalismi entro un “termine ragionevole”; la somministrazione delle ragioni della decisione è questione decisamente passata in secondo piano. Lart. 111 Cost. stabilisce che «tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati». In ossequio a tale prescrizione il codice di procedura civile esige che la sentenza contenga la concisa esposizione «dei motivi in fatto e in diritto della decisione» L’obbligo della motivazione assolve alla funzione di assicurare in concreto il perseguimento di diversi principi costituzionali in tema di giurisdizione, quali il diritto di difesa, l’indipendenza del giudice e la sua soggezione alla legge, nonché il principio di legalità. Ai sensi dell’art. 118, co. 1°, disposizioni di attuazione del c.p.c., la motivazione della sentenza consiste nella concisa esposizione dei fatti rilevanti della causa e delle ragioni giuridiche della decisione, anche con riferimento a precedenti conformi. In essa debbono essere esposte concisamente e in ordine le questioni discusse e decise dal collegio ed indicati le norme di legge e i principi di diritto applicati. La violazione dell’obbligo di motivazione determina l’invalidità del provvedimento giurisdizionale e può essere fatta valere attraverso il sistema delle impugnazioni). 
Per quanto riguarda il ricorso per cassazione, in particolare, l’art. 360 prevede quale motivo di impugnazione l’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio. Anche se quella di scrivere a mano la sentenza è una prassi ancora frequente nell'epoca della digitalizzazione del processo e conformemente al percorso dell’eccessiva semplificazione (per non dire pigrizia), se la sentenza è manoscritta e la grafia dell’estensore illeggibile, si rende necessario l'annullamento, non della sola sentenza-documento, ma dell'intero giudizio, che dovrà essere svolto ad opera di diverso magistrato. Così ha deciso la Suprema Corte nella sentenza 7 novembre 2014, n. 46124. Nella fattispecie, un uomo, riconosciuto in primo e secondo grado colpevole del delitto di ingiuria, proponeva ricorso in cassazione deducendo nullità della sentenza e la violazione del diritto di difesa per la indecifrabilità della grafia dell'estensore. La Suprema Corte, nell’accogliere il ricorso, ha precisato che, a causa della grafia del giudice (che, verosimilmente, per la scarsa dimestichezza con il pc, ha preferito manoscrivere la sentenza), non è possibile comprendere compiutamente quale sia la trama argomentativa della sentenza. 
L'importanza della scrittura e della sua capacità rivelatrice
Come chiarito dalle SS. UU. nella sentenza n. 42363/2006, l'indecifrabilità della sentenza, quando non sia limitata ad alcune parole e non dia luogo a una difficoltà di lettura agevolmente superabile, è causa di nullità d'ordine generale a regime intermedio. Invero, infatti, la sentenza non è un “atto privato” del giudicante, ma costituisce un decisum (e un documento) rivolto a terzi (alle parti e, eventualmente, al giudice del gravame) e, pertanto, deve essere comprensibile. Vengono in mente le parole che Kafka, nel Processo, mette in bocca al sacerdote che nel Duomo parla al suo unico, sgomento spettatore K.: la sentenza non viene «così all’improvviso», ma è il processo stesso che lentamente, inesorabilmente si trasforma in sentenza. Nell’intuizione del grande scrittore boemo possono riconoscersi vari fenomeni processuali: dalla formazione progressiva del giudicato al thema decidendum frutto di preclusioni e decadenze; fino al setaccio degli elementi che, al termine del processo, il giudice potrà considerare ai fini del decidere. Il giudice è chiamato ad affermare il diritto e non condivide con nessuno tale responsabilità.

lunedì 14 marzo 2016

Donne e toga: Imbecillitas sexus


I nomi epicèni (dal gr. epíkoinon "comune", sottinteso génos "genere") sono nomi che hanno un’unica forma per il maschile e il femminile, indipendentemente dal sesso dell’essere animato a cui si riferiscono. A certe denominazioni, comunque, non siamo abituati. Il maschile, come la toga, “traveste e nasconde”. Con l’espressione l’avvocato, si dà la precedenza alla funzione rispetto alla persona che la svolge, ma si finisce anche per replicare “lo stereotipo millenario della calza e non della toga, della domus e non della polis”, così duro a morire, prima di tutto dentro le donne. Diversamente, avvocatessa, è sentita come ironica o addirittura dispregiativa Quella dell'avvocato resta nella percezione comune una professione ancora prestigiosa, ma è non più al top. Ai primi posti nella classifica delle professioni d'eccellenza secondo gli italiani si collocano i medici (il 37% ha attribuito il punteggio massimo su una scala da 1 a 10), seguiti dai magistrati (25%), i professori universitari (19,5%), i notai (17%), gli ingegneri (15%), gli imprenditori (15%) e i dirigenti d'azienda (13%). Politici (9%), avvocati (9%) e dirigenti di banca (8%) occupano la metà della classifica, mentre in coda figurano commercialisti (5%) e geometri (4%). Per il 16% degli italiani il prestigio della professione forense è aumentato nel corso degli ultimi anni, per il 47% è rimasto invariato, per il restante 37% è invece diminuito. Sono i risultati del «Rapporto annuale sull'avvocatura» realizzato dal Censis per la Cassa Forense Nazionale. E più specificatamente per le donne avvocate?
Sono in numero crescente, si appassionano alle vicende umane dei propri assistiti, riescono a compenetrarsi nei problemi, sono spesso più preparate e determinate dei colleghi maschi: eppure, quello delle donne nell'avvocatura è un percorso ancora tutto in divenire, che paga lo scotto di secoli di arretratezza culturale. La presenza delle donne nel mondo del diritto ha radici lontane: Giustina Rocca, avvocatessa del Foro di Trani , è passata alla storia come il primo avvocato donna del mondo. Di lei resta celebre la sentenza arbitrale pronunciata, in lingua volgare, l’8 aprile del 1500 al cospetto del governatore veneziano di Trani Ludovico Contarini cui assistettero tutti i suoi concittadini.
Maria Pellegrina Amoretti fu, sul finire del settecento, la prima donna a scegliere di laurearsi in giurisprudenza, senza però proseguire nel lungo processo verso l’abilitazione professionale, probabilmente troppo all’avanguardia per una giovane donna di quei tempi che volesse, verosimilmente, essere anche madre e moglie. La giovane Lidia Poet, invece, fu protagonista di un episodio singolare, destinato a fare la storia dell’avvocatura nazionale in rosa: scelse ed ottenne, nel 1883, di iscriversi all’albo professionale, ma la sua iscrizione fu annullata dalla Corte di Appello di Torino con motivazioni che, rilette oggi, fanno a dir poco accapponare la pelle. Tra le argomentazioni espresse dalla sentenza, la cd. imbecillitas sexus, in uno ad un’asserita incapacità naturale della donna ad esercitare la professione, definita troppo sconveniente già solo nell’abbigliamento femminile sotto la toga, idoneo addirittura a compromettere la serietà dei giudizi finali. 
Sono tante le donne che scelgono il tortuoso cammino della libera professione forense e ce ne sono tante nelle aule di giustizia. Tuttavia, la strada delle donne nell’avvocatura è ancora lunga da percorrere e siamo ben lontani dalla brillante figura dell’avvocato Amanda Bonner, interpretata magistralmente Katharine Hepburn al fianco di Spencer Tracy nel film “La costola di Adamo”. Perché il bel sesso continua, almeno nel nostro Paese, a pagare lo scotto di voler essere e dover essere, secondo la mistica della maternità al pari di Maria Pellegrina Amoretti prima che una professionista, una moglie ed una madre, con pesanti ricadute sulla professione forense.