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lunedì 14 marzo 2016

Donne e toga: Imbecillitas sexus


I nomi epicèni (dal gr. epíkoinon "comune", sottinteso génos "genere") sono nomi che hanno un’unica forma per il maschile e il femminile, indipendentemente dal sesso dell’essere animato a cui si riferiscono. A certe denominazioni, comunque, non siamo abituati. Il maschile, come la toga, “traveste e nasconde”. Con l’espressione l’avvocato, si dà la precedenza alla funzione rispetto alla persona che la svolge, ma si finisce anche per replicare “lo stereotipo millenario della calza e non della toga, della domus e non della polis”, così duro a morire, prima di tutto dentro le donne. Diversamente, avvocatessa, è sentita come ironica o addirittura dispregiativa Quella dell'avvocato resta nella percezione comune una professione ancora prestigiosa, ma è non più al top. Ai primi posti nella classifica delle professioni d'eccellenza secondo gli italiani si collocano i medici (il 37% ha attribuito il punteggio massimo su una scala da 1 a 10), seguiti dai magistrati (25%), i professori universitari (19,5%), i notai (17%), gli ingegneri (15%), gli imprenditori (15%) e i dirigenti d'azienda (13%). Politici (9%), avvocati (9%) e dirigenti di banca (8%) occupano la metà della classifica, mentre in coda figurano commercialisti (5%) e geometri (4%). Per il 16% degli italiani il prestigio della professione forense è aumentato nel corso degli ultimi anni, per il 47% è rimasto invariato, per il restante 37% è invece diminuito. Sono i risultati del «Rapporto annuale sull'avvocatura» realizzato dal Censis per la Cassa Forense Nazionale. E più specificatamente per le donne avvocate?
Sono in numero crescente, si appassionano alle vicende umane dei propri assistiti, riescono a compenetrarsi nei problemi, sono spesso più preparate e determinate dei colleghi maschi: eppure, quello delle donne nell'avvocatura è un percorso ancora tutto in divenire, che paga lo scotto di secoli di arretratezza culturale. La presenza delle donne nel mondo del diritto ha radici lontane: Giustina Rocca, avvocatessa del Foro di Trani , è passata alla storia come il primo avvocato donna del mondo. Di lei resta celebre la sentenza arbitrale pronunciata, in lingua volgare, l’8 aprile del 1500 al cospetto del governatore veneziano di Trani Ludovico Contarini cui assistettero tutti i suoi concittadini.
Maria Pellegrina Amoretti fu, sul finire del settecento, la prima donna a scegliere di laurearsi in giurisprudenza, senza però proseguire nel lungo processo verso l’abilitazione professionale, probabilmente troppo all’avanguardia per una giovane donna di quei tempi che volesse, verosimilmente, essere anche madre e moglie. La giovane Lidia Poet, invece, fu protagonista di un episodio singolare, destinato a fare la storia dell’avvocatura nazionale in rosa: scelse ed ottenne, nel 1883, di iscriversi all’albo professionale, ma la sua iscrizione fu annullata dalla Corte di Appello di Torino con motivazioni che, rilette oggi, fanno a dir poco accapponare la pelle. Tra le argomentazioni espresse dalla sentenza, la cd. imbecillitas sexus, in uno ad un’asserita incapacità naturale della donna ad esercitare la professione, definita troppo sconveniente già solo nell’abbigliamento femminile sotto la toga, idoneo addirittura a compromettere la serietà dei giudizi finali. 
Sono tante le donne che scelgono il tortuoso cammino della libera professione forense e ce ne sono tante nelle aule di giustizia. Tuttavia, la strada delle donne nell’avvocatura è ancora lunga da percorrere e siamo ben lontani dalla brillante figura dell’avvocato Amanda Bonner, interpretata magistralmente Katharine Hepburn al fianco di Spencer Tracy nel film “La costola di Adamo”. Perché il bel sesso continua, almeno nel nostro Paese, a pagare lo scotto di voler essere e dover essere, secondo la mistica della maternità al pari di Maria Pellegrina Amoretti prima che una professionista, una moglie ed una madre, con pesanti ricadute sulla professione forense.

venerdì 30 ottobre 2015

A ciascuno il suo



Entra in vigore il 14 novembre 2015 il decreto del ministero della Giustizia 12 agosto 2015 n. 144, che disciplina il «Regolamento recante disposizioni per il conseguimento e il mantenimento del titolo di avvocato specialista, a norma dell’articolo 9 della legge 31 dicembre 2012, n. 247» La nuova normativa costituisce uno strumento importante per la categoria, ma pone non pochi problemi deontologici.
Due allora, i punti che si possono intanto esaminare: i (simili) requisiti per la prima iscrizione in base alla “comprovata esperienza” (articolo 8), e per il suo mantenimento (articolo 11).
A proposito del primo la riflessione non può non tener conto di un altro aspetto cruciale, quello della definizione dei settori di specializzazione: la constatazione che di fronte all’esteso numero di settori più o meno attinenti al diritto civile vi è un’unica “area” per il diritto penale (così come per quello amministrativo). La maggior parte delle controproposte sono state non nel senso di suggerire di “unificare” anche quello del diritto civile, o comunque ridurne i settori come l’eliminazione di quello della “responsabilità civile”. D’altronde è tanto più facile ottenere l’iscrizione per comprovata esperienza, e poi mantenerla, quanto più generico è l’ambito.
Detto questo, sono lecite fin d’ora alcune note a margine del testo pubblicato con particolare attenzione alla rilevanza deontologica della nuova normativa.
In sintesi i requisiti richiesti sono: anzianità di iscrizione all’Albo di otto anni, e (sia ai sensi dell’articolo 8 che dell’articolo 11) numero di “incarichi” fiduciari (anche stragiudiziali, quindi) non inferiore a quindici per anno, ma con esclusione di quegli «affari che hanno ad oggetto medesime questioni giuridiche e necessitano di un’analoga attività difensiva». Quindi, per dire, l’avvocato specialista civilista dovrebbe certamente essere non di “primo pelo” e inserito in una struttura tale da assicurargli un notevole flusso di lavoro settoriale; mentre la verifica delle sue effettive capacità teorico-pratiche è lasciata (nel solo caso dell’articolo 8) al “colloquio” disposto dal Cnf sulla base di“parametri” e dei “criteri” per condurlo non ancora individuati ed eseguiti da un organo apposito nemmeno accennato.
Riflessioni che appaiono quindi non prive di perplessità, di qui la considerazione deontologica:
  • non si operi una moltiplicazione evangelica degli incarichi (nella maggior parte dei casi l’incarico è costituito dalla risoluzione non di una sola, ma di diverse questioni giuridiche),  oppure
  • non ci si metta d’accordo all’interno degli studi per associare fittiziamente il collega nei mandati.
Si potrebbe allora concludere che in materia assuma valore decisivo una verifica deontologica: ma, se fosse possibile ex post, per esempio in occasione di questioni di responsabilità professionale con “premesse” o “strascichi” disciplinari, sarebbe assai difficile pensare che un simile tipo di controllo possa essere esercitato da un organo centrale quale la (eventuale, futura) articolazione del Cnf. Per l’altro aspetto accennato (la visibilità sul mercato dei servizi legali consentita dall’esibizione della qualifica) si può ipotizzare uno scenario apparentemente paradossale: laddove la macro area (oggi, il diritto civile) sia suddivisa in numerosi settori, può essere controproducente sceglierne uno (o, al massimo, due), perché ciò significherebbe lanciare alla potenziale clientela un messaggio informativo tendente a restringere l’offerta. Sarà il caso di tutti quei professionisti che siano ben capaci di prestare una competente assistenza in più di un campo della stessa branca del diritto. Di conseguenza si potrà legittimamente essere specialisti di sole due aree ma grandi esperti di molte di più.
Tutto bene, invece, per chi non ha del suo.