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giovedì 8 dicembre 2016

L’imputato era famoso. Si dichiarò innocente.



"Ponzio, ti ricordi di Gesù il Nazareno che fu crocifisso non so più per quale delitto?”
Di sicuro Pilato non avrebbe potuto immaginare che quell'atto processuale, celebrato in una sperduta provincia dell'Impero romano, avrebbe segnato indelebilmente la storia dell'umanità. Nessuna azione giudiziaria intentata contro una persona è conosciuta da un numero altrettanto grande di persone. I più celebri casi giudiziari impallidiscono di fronte alle due sbrigative sessioni processuali, durate meno di 24 ore e celebrate davanti al Sinedrio e al procuratore romano, che mandarono alla pena capitale quel predicatore di nome Gesù di Nazaret. Questi è arrestato nella notte tra il giovedì ed il venerdì nel podere detto Getsemani ai piedi del monte degli Ulivi ed è trasferito sotto scorta dinanzi all'ex sommo sacerdote Anna per un primo interrogatorio informale in una seduta notturna del Sinedrio presso l’abitazione di Caifa, con l’accusa di bestemmia. Secondo il trattato sul Sinedrio della Mishnah, la grande collezione delle tradizioni rabbiniche, i processi capitali potevano essere celebrati solo di giorno e nella sede ufficiale del Sinedrio, la cosiddetta "aula della pietra squadrata" che si trovava presso il tempio. Disattesa questa prescrizione, il sinedrio si riuniva l'indomani, all'alba, per formalizzare con una seduta vera e propria, quell'abbozzo di istruttoria, con un interrogatorio e con una sentenza.
Entriamo, ora, all'interno dell'aula sinedrale per seguire il dibattimento. Si inizia con l'escussione dei testimoni, almeno due secondo la normativa biblica. La loro deposizione riguarda le dichiarazioni poco rispettose di Gesù sul tempio, il cuore della spiritualità giudaica: "Posso distruggere il tempio di Dio e ricostruirlo in tre giorni". Sappiamo che in realtà Gesù in quell'occasione aveva usato il tempio come simbolo del nuovo culto che egli voleva inaugurare nel suo corpo glorioso. Gesù a queste accuse oppone uno strano silenzio. Per indirizzare l'interrogatorio verso uno sbocco meno vago, il sommo sacerdote formula una precisa domanda, a cui Gesù replica con una risposta altrettanto precisa. 
Eccola nella redazione di Marco: "Sei tu il Cristo, il Figlio di Dio benedetto?". Gesù rispose: "Io lo sono! E vedrete il Figlio dell'uomo seduto alla destra della Potenza e venire sulle nubi del cielo!" (14, 61-62). Gesù agli occhi di Caifa non si arroga solo il titolo di messia davidico, ma anche quella misteriosa qualità trascendente, fondendoli insieme nella sua persona e facendo così scattare il presidente del Sinedrio: "Ha bestemmiato!". Col gesto rituale dello "stracciarsi le vesti" in segno di lutto e di profonda emozione davanti a uno scandalo o a un'ignominia, Caifa sollecita l'approvazione della sentenza: "Che ve ne pare?". E l'assemblea ratifica: "È reo di morte!".
Si apre, così, il secondo atto di quel giorno, il più lungo della storia, che contempla l’accusa di alto tradimento e lesa maestà. Gesù è trasferito al "pretorio" del procuratore romano, poiché il Sinedrio non ha il potere di dare la morte, essendo un consesso religioso. Il capo d'imputazione avanzato dal Sinedrio è ora di tipo politico, per poter essere accolto dal tribunale romano: "Abbiamo trovato costui che sobillava il nostro popolo, impediva di dare tributi a Cesare e affermava di essere il Cristo re" (Luca, 23, 2). 
Pilato interroga l'imputato con distacco ottenendo risposte reticenti ("Tu l'hai detto") o il silenzio. Comprendendo di essere di fronte a un caso carico di sottintesi, di ambiguità e di sfumature, Pilato non ratifica subito l'accusa giudaica, ma apre un supplemento di istruttoria. Ricorre, poi, all'applicazione del "privilegio pasquale", per evitare la condanna di un uomo che non gli era sembrato colpevole di alcun reato. Il privilegio pasquale è un atto di clemenza in cui "Il governatore era solito, per ciascuna festa di Pasqua, rilasciare al popolo un prigioniero, a loro scelta. Avevano in quel tempo un prigioniero famoso, detto Barabba. Pilato disse loro: Chi volete che vi rilasci: Barabba o Gesù chiamato il Cristo?"(Matteo, 27, 15-17). Il popolo sceglie Barabba,Crucifige!!” urlava rivolgendosi a Gesù. Solo allora Pilato proclamò la pena di morte per il crimen laesae maiestatis che ,nelle province, di regola, era comminata con la croce. Normalmente, la condanna alla crocifissione suonava: “Ibis in crucem!”. La folla informe salva il potere dall’imbarazzo di una scelta scomoda. Molto probabilmente è composta dalle stesse persone che pochi giorni prima avevano intonato l'Osanna all'ingresso di Gesù a Gerusalemme…

domenica 12 giugno 2016

Partite di calcio come guerre




E tempo di Europei e l’Italia debutta domani 13 giugno contro il Belgio. Per questa ragione sembra interessante approfondire il tema della scriminante dell’accettazione del rischio. Quanto a noi italiani, Winston Churchill disse:“gli Italiani perdono le guerre come se fossero partite di calcio e le partite di calcio come se fossero guerre”. Tanta foga si manifestò in una partita di calcio del campionato sardo, quando un giocatore della squadra dell'Alghero, in un'azione di gioco, al fine d'interrompere l'azione avviata dall’avversario della squadra del Tempio, il quale, attorno al 48° minuto del secondo tempo, impossessatosi del pallone aveva dato vita ad un veloce contropiede della squadra ospitata, spingendo davanti a sé la sfera, con l'intento di guadagnare prestamente l'area di rigore, attingeva, con eccessiva violenza, con un calcio la gamba dell'avversa rio, causandogli lesioni gravi, consistite nella frattura della tibia sinistra. Una recente pronuncia (Cass. Pen., Sez. IV,sentenza n. 9559, decisa il 26 novembre 2015, depositata in Cancelleria l'8marzo 2016) in tema di reato colposo prende le mosse proprio da questo avvenimento. Com’è noto, la Federazione Italiana Giuoco Calcio è titolare di una potestà disciplinare sui propri associati in relazione ad una prospettiva funzionale al perseguimento dei propri fini istituzionali. 
Tale potere della federazione discende dagli ampi margini di autonomia riconosciuti all’ordinamento sportivo dall’ordinamento giuridico generale. Il problema che si pone è, appunto, quello dell’individuazione del confine entro il quale l’associato, in nome della sua contemporanea appartenenza a quell’ordinamento particolare, può essere privato ovvero, sotto diverso angolo visuale, è tenuto a rinunciare ai diritti allo stesso spettanti quale componente dell’ordinamento giuridico statuale. I problemi sorgono nell’ambito degli sport cosiddetti “a contatto eventuale” nel senso che il contatto fisico, pur non costituendo tratto caratterizzante il gioco, è ammesso, seppur entro determinati limiti. Premesso che, ovviamente, il quantum di violenza consentita o tollerata muta al variare delle finalità tecniche della specifica disciplina sportiva presa in considerazione, è possibile osservare come, normalmente, un fatto che se commesso al di fuori dell’esercizio dell’attività agonistica costituirebbe, di per sé, reato, diviene lecito e, comunque, consentito ove si verifichi in sede sportiva ed all’interno del quadro costituito dalle regole del gioco. Con la sentenza n. 9559 dell'8 marzo 2016, la Cassazione penale, sezione quarta, seguendo l'opinione più diffusa e convincente in materia, aderisce al principio enunciato, escludendo invece l'operatività di una tale scriminante nei seguenti casi:
a) quando si constati l'assenza di collegamento funzionale tra l'evento lesivo e la competizione sportiva;
b) quando la violenza esercitata risulti sproporzionata in relazione alle concrete caratteristiche del gioco e alla natura e rilevanza dello stesso (a tal ultimo riguardo, un conto è esercitare un agonismo, anche esacerbato, allorquando sia in palio l'esito di una competizione di primario rilievo, altro conto quando l'esito non abbia una tale importanza o, ancor meno, se si tratti di partite amichevoli o, addirittura, di allenamento);
c) quando la finalità lesiva costituisce prevalente spinta all'azione, anche ove non consti, in tal caso, alcuna violazione delle regole dell'attività".
Si esclude, in particolare, la possibilità di invocare la scriminante del consenso dell'avente diritto, di cui all'art. 50 cod. pen., in quanto non può giungere "fino a giustificare lesioni irreversibili dell'integrità fisica e financo (in alcune discipline) la morte"; parimenti quella dell'esercizio del diritto, ex art. 51 cod. pen., la quale "non consentirebbe di escludere dall'area della penale responsabilità tutte quelle condotte che, pur commesse in violazione del regolamento che disciplina la singola disciplina sportiva, non risultino esuberare l'area del rischio accettato". Costituisce, infatti, secondo la sentenza in esame, un sapere largamente condiviso "la constatazione che l'esercizio, specie con i caratteri agonistici delle gare di maggior rilievo, di una disciplina sportiva che implichi l'uso necessario (es. pugilato, lotta, ecc.) o anche solo eventuale (calcio, rugby, pallacanestro, pallanuoto, ecc.) della forza fisica, costituisce un'attività rischiosa consentita dall'ordinamento, per plurime ragioni, a condizione che il rischio sia controbilanciato da adeguate misure prevenzionali, sia sotto forma di regole precauzionali, che dall'imposizione di obblighi di cure e trattamento a carico delle società sportive operanti". Si è inoltre specificato che "l'area consentita è delimitata dal rispetto delle regole del gioco, la violazione delle quali, peraltro, deve essere valutata in concreto, con riferimento alle condizioni psicologiche dell'agente, il cui comportamento scorretto, travalicante, cioè, quelle regole, può essere la colposa, involontaria evoluzione dell'azione fisica legittimamente esplicata o, al contrario, la consapevole e dolosa intenzione di ledere l'avversario, approfittando della circostanza del gioco".
Nella fattispecie in esame l'infortunio è maturato in un frangente di gioco particolarmente intenso (gli ultimi minuti dell'incontro di una partita di calcio del campionato serie Eccellenza). L'atto era manifestamente indirizzato ad interrompere l'azione di contropiede della squadra avversaria, mediante il tentativo di impossessarsi regolarmente del pallone. La condotta del calciatore, giudicato colpevole dal giudice di merito del reato di cui all'art. 590, commi 1 e 2 c.p., viene ritenuta invece dalla Cassazione meritevole di censura solo nell'ambito dell'ordinamento sportivo, "non già perché smodatamente violenta (la pienezza agonistica qui era giustificata dal contesto dell'azione, dal momento di essa e dagli interessi in campo), bensì perché, mal calcolando la tempistica, invece che cogliere il pallone, aveva finito per colpire la gamba dell'avversario che già aveva allungato la sfera in avanti; ma certamente non sconfina dal perimetro coperto dalla scriminante" atipica dell'accettazione del rischio.

domenica 5 giugno 2016

Fine pena mai: la morte viva



Aldo Moro nelle sue lezione universitarie avvertiva gli studenti, ma forse anche il legislatore e i politici: «Ricordatevi che la pena non è la passionale e smodata vendetta dei privati: è la risposta calibrata dell’ordinamento giuridico e, quindi, ha tutta la misura propria degli interventi del potere sociale, che non possono abbandonarsi ad istinti di reazione e di vendetta, ma devono essere pacatamente commisurati alla necessità, rigorosamente alla necessità, di dare al reato una risposta quale si esprime in una pena giusta». Oggi affrontiamo un tema che certamente farà discutere ma che non si uò tralasciare a lungo ormai è necessario prendere una ferma posizione su quelli che dovrebbero essere diritti costituzionalmente garantiti. L'ordinamento italiano, che contempla la pena dell'ergastolo ma consente di mitigarne il rigore grazie ai benefici penitenziari, preclude a determinate categorie di ergastolani (c.d. ostativi) l'accesso a tali misure premiali. Sono 1.600 (erano 408 all’approvazione della legge) gli ergastolani in carcere condannati per reati che impediscono il loro accesso alle alternative al carcere e, tra esse, alla liberazione condizionale, l’unico istituto che consente a chi abbia già scontato almeno 26 anni di pena detentiva di non morire in carcere. Sono, insomma “ergastolani ostativi”. 
Pochi sanno che la pena dell’ergastolo di oggi non è più quella di una volta, perché ora i tipi di ergastolo sono due: quello normale, che manca di umanità, proporzionalità, legalità, eguaglianza ed educatività, ma ti lascia almeno una speranza, per quanto incerta, di poter uscire in permesso dopo 10 anni, dopo 20 anni in semilibertà e dopo 26 anni in libertà condizionale; poi c’è quello ostativo, che ti condanna a morte facendoti restare vivo, senza nessuna speranza. Per meglio comprendere la questione bisogna avere presente la legge 356/92 che introduce nel sistema di esecuzione delle pene detentive una sorta di doppio binario, nel senso che, per taluni delitti ritenuti di particolare allarme sociale, il legislatore ha previsto un regime speciale, che si risolve nell’escludere dal trattamento extramurario i condannati, a meno che questi collaborino con la giustizia: per questo motivo molti ergastolani non possono godere di alcun beneficio penitenziario e di fatto sono condannati a morire in carcere. La finalità rieducativa della pena? 
Se per “rieducazione” intendiamo un concreto processo di reinserimento sociale cui deve tendere la pena – e non una semplice emenda morale che il reo raggiunge chiuso nella sua cella al termine dei suoi giorni – è del tutto evidente che una pena senza fine (“MAI” era scritto nel fascicolo degli ergastolani alla voce “fine pena”, prima che l’automazione informatica imponesse un codice numerico: 99/99/9999) non è costituzionalmente ammissibile. Inoltre, un’adeguata valutazione dell’altro principio costituzionale per il quale le pene non devono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità, sarebbe anch’esso sufficiente a motivare l’incostituzionalità di una misura che non offre alcun fine alla vita umana se non quella di soffrire e morire per essere d’esempio negativo ad altri.
Tutti questi argomenti erano già in scena quando il legislatore decise che bisognasse impedire legalmente ai condannati per delitti gravi o legati alla criminalità organizzata di accedere alle misure alternative.
Ma allora molti credevano veramente che in Italia l’ergastolo mai si scontasse per intero. Oggi no. Con la preclusione all’accesso alle alternative, la gran parte degli ergastolani sconta la propria pena per intero, fino al 99/99/9999.


La preclusione alle alternative stabilita dalla legge non è assoluta, ma può essere aggirata collaborando con la giustizia, o dimostrando di non poterlo fare, di non aver nulla da dire. E dunque, secondo la Corte Costituzionale, l’ergastolano che non accede alle alternative è causa del suo stesso male. Evidentemente ai giudici della Corte non è venuto in mente che quel modo di sfuggire alla morte civile ha qualcosa di terribilmente inquisitorio: un pubblico ministero sente che io potrei sapere qualcosa su un fatto di reato; sente, ma non sa (altrimenti non me lo chiederebbe e procederebbe altrimenti); se io gli confermo le sue sensazioni, in cambio potrò avere una prospettiva di liberazione condizionale, e magari prima qualche permesso-premio; se non gli confermo quelle sensazioni (perché non so o perché “non voglio mettere un altro al posto mio”, come dice Carmelo Musumeci) marcirò in galera per il resto della mia vita. Non chiamiamola tortura, per carità, ma libera scelta proprio no.