martedì 31 ottobre 2017

Il caro estinto




Ai sensi della Legge n. 130 del 2001, con la quale è caduto l'obbligo di ricovero delle ceneri nei Cimiteri italiani, le modalità di conservazione sono disciplinate nel rispetto delle volontà del defunto. Nel modulo di iscrizione al Registro Italiano Cremazioni, una sezione dedicata consente di poter indicare a quale familiare affidare la conservazione a domicilio delle ceneri. Non è obbligatorio specificarlo al momento dell’iscrizione: ciascun iscritto potrà decidere, quando lo riterrà più opportuno, se dichiarare la volontà di affidare le ceneri alla conservazione o alla dispersione. L'iscrizione al Registro Italiano Cremazioni, e la relativa comunicazione delle generalità della persona che si farà carico dell'affidamento - fatta salva la sua disponibilità ad accettare la conservazione delle ceneri - consente di ridurre, peraltro, i rischi di un eventuale disaccordo fra i parenti del defunto, permanendo il quale l'urna è momentaneamente tumulata nel Cimitero. In tema di conservazione delle ceneri, siano esse affidate al domicilio o, in alternativa, tumulate o interrate, la Legge ricorda che – rispettato l’obbligo di sigillare l’urna – deve essere sempre consentita la chiara identificazione dei dati anagrafici del defunto. Per il trasporto dell’urna contenente le ceneri non sono previste norme precauzionali di tipo igienico. Si consideri che la custodia dell’urna cineraria non è solo un onore per il soggetto affidatario, ma comporta anche l’assunzione di alcuni obblighi nei confronti del Comune, che rimane il titolare formale ed istituzionale della funzione cimiteriale. 
Infatti, l’urna deve essere conservata in luogo confinato e stabile, protetta da possibili asportazioni, aperture o rotture accidentali. Si consideri che l’autorizzazione all’affidamento di un’urna cineraria non costituisce, in sé, autorizzazione alla realizzazione di un colombario o di un manufatto edile, la cui costruzione è soggetta ad altra e diversa normativa. Occorre permettere l’accesso agli altri congiunti del de cuius perché essi possano esercitare il loro diritto di visitare i resti del defunto per atti rituali e di suffragio. L’affidatario è poi anche sottoposto alle ispezioni e ai controlli di vigilanza da parte del personale comunale (polizia mortuaria, che fa parte della Polizia Locale) all’uopo preposto e risponde penalmente di eventuali profanazioni delle ceneri se tale sacrilegio si dovuto a sua colpa grave o inadempimento. Inoltre, occorre specificare che l'affidamento delle ceneri non costituisce alcuna implicita autorizzazione a qualsivoglia forma di sepoltura privata. L’istituto dell’affido delle ceneri, nella sua evoluzione storica passa attraverso la legittimazione a collocare le ceneri, definite dal DPR 285/90 con la metonimia di “urne cinerarie”, in “altro sito” oltre che nel cimitero. Detto sito, però, secondo tutta la dottrina, avrebbe comunque dovuto insistere all’interno del camposanto, anche quando fosse sorto su area cimiteriale in concessione ad enti morali (oggi: associazioni riconosciute), e non avrebbe potuto essere altrimenti, in quanto l’art. 340 del Testo Unico Leggi Sanitarie (Regio Decreto 1265/1934) pone il divieto di sepoltura al di fuori dei cimiteri con una norma che ha rilevanza di ordine pubblico (cioè, inderogabile) siccome la sua violazione non solamente è soggetta a sanzione, ma importa anche il ripristino della situazione alterata, ammettendo, del tutto eccezionalmente, la sola deroga del successivo art. 341 TULLSS (e, in sua attuazione, dell’art. 105 dPR 285/1990) cioè la tumulazione privilegiata, la quale importa la valutazione di “giustificati motivi di speciali onoranze”, con la logica conseguenza che la sepoltura al di fuori dei cimiteri non può mai divenire pratica ordinaria. 
Dal punto di vista operativo, per attuare la volontà espressa secondo la disciplina di cui alla lettera e) delcomma 1 dell’art. 3 della Legge 130/01, ribadita dalla Legge regionale 20/2007, occorre il rispetto del seguente protocollo operativo: le volontà del defunto devono essere espresse in modo inequivocabile; l’urna, sulla quale saranno apposti i dati anagrafici del defunto, dovrà essere, e rimanere, sigillata in maniera tale da impedire la profanazione delle ceneri; la consegna dell’urna al familiare custode dovrà essere verbalizzata ex art. 81 DPR 285/90; il luogo di collocazione dell’urna dovrà essere garantito dal pericolo di profanazione.
Qualora, per qualsiasi motivo, l’affidatario o i suoi eredi intendano rinunciare all’affidamento dell’urna, essi sono tenuti a conferirla al Cimitero per la tumulazione o per la deposizione nel Cinerario Comune previa acquisizione dell’autorizzazione al trasporto da parte del Comune nel quale si trova l’urna affidata. E’ stata proprio una nuova interpretazione giurisprudenziale (Consiglio di Stato parere 2957/3 del 29 ottobre 2003) che ha attuato l’affido famigliare delle ceneri. Secondo il Consiglio di Stato l’affidamento ai familiari dell’urna delle ceneri è compiutamente disciplinato dalla lett. e) del comma 1 dell’art. 3 della Legge 130/01. Bisogna, però specificare come il DPR 24 Febbraio 2004 emanato dal Presidente della Repubblica in attuazione del parere formulato dal Consiglio di Stato, sia frutto di un ricorso in sede giurisdizionale, nelle more di una compiuta normazione regionale, il comune, dunque, ha solo facoltà e non obbligo di permettere l’affido delle ceneri, siccome il suddetto DPR 24 febbraio 2004, sotto l’aspetto giuridico, pur essendo un importantissimo precedente giurisprudenziale, vale solo per quell’unico caso preso in esame (cioè il ricorso presentato da un un cittadino contro un comune italiano) e non è automaticamente estensibile a tutte le richieste di affido. 
Una sentenza, dopo tutto, fa stato tra le parti (art. 2909 c.c.). Ciò detto, proprio perché l’affido dell’urna comporta tutti gli oneri sopra elencati, mi pare opportuno verificare che il soggetto selezionato sia d’accordo nell’assumerli e ne abbia, concretamente, la possibilità: la vita odierna porta spesso a lavorare lontano dalla casa avita, non solo in un altro Comune. Si consideri poi anche che il soggetto designato come affidatario non sarà eterno e quindi dovrà, a sua volta, designare un altro affidatario per il tempo in cui avrà cessato di vivere e così via. Se chiedere alla propria figlia di custodire l’urna nella casa lasciata in eredità ha sicuramente un significato affettivo ben preciso, con il passare delle generazioni tale significato tenderà, inevitabilmente, ad affievolirsi e dunque invito a chiedersi: che valore avrà l’urna delle mie ceneri per i miei bis-bis nipoti?





domenica 24 settembre 2017

Famolo strano!



Ed eccoci qui,  dalle cause di separazione basate sul “difetto di verginità” alle opposte circostanze in cui sono le donne che citano in giudizio gli uomini chiedendo risarcimenti da capogiro per il mancato adempimento dei doveri coniugali (al Tribunale di Bologna pende una causa promossa da una signora che pretende dal marito, dopo un fidanzamento “normale” sotto il profilo fisico, un ragguardevole risarcimento da “inadeguatezza sessuale” durante i successivi cinque anni di matrimonio). In realtà  tra gli obblighi che derivano dal matrimonio e dai quali dipendono diritti e doveri vicendevoli, non emerge nulla di specifico in tema di rapporti sessuali il secondo comma dellart. 143 c.c. che prevede come “…Dal matrimonio deriva l’obbligo reciproco alla fedeltà, all’assistenza morale e materiale, alla collaborazione nell’interesse della famiglia, ed alla coabitazione”.
Il concetto di fedeltà è esteso non solo alla presenza di relazioni sessuali extraconiugali, ma anche ai casi c.d. di "infedeltà apparente", "relazione platonica", "tentativo di tradimento", quali comportamenti in grado di ledere la sensibilità e la dignità del coniuge.  
È da diverso tempo che le problematiche inerenti la sfera più intima della vita di coppia hanno fatto il loro ingresso in giurisprudenza. I giudici hanno affrontato molte volte la questione dei c.d. "matrimoni bianchi", affermando che se la "sedatio concupiscentiae" non è l'unico scopo del matrimonio, in capo ai coniugi sussiste un vero e proprio diritto-dovere per ciò che concerne i rapporti sessuali, equiparabile agli altri diritti e doveri discendenti dal contratto matrimoniale.

Il rifiuto della sessualità infatti, senza alcuna giustificazione, dà luogo all’offesa della dignità della persona, comportante con la reiterazione di tale rifiuto anche un pregiudizio sul piano personale e psicologico ed una lesione del diritto costituzionalmente garantito alla salute psichica. Rientra nella casistica anche il caso in cui il coniuge si rifiuti per ritorsione o punizione.
Una famosa sentenza della Cassazione, sotto tale profilo, condannava un uomo che per lunghi anni aveva rifiutato di intrattenere rapporti sessuali con la moglie, giustificando egli tale rifiuto quale punizione di un mancato adempimento economico e contrattuale da parte del fratello del coniuge nei suoi confronti.
In numerose occasioni, i giudici hanno considerato legittimo il rifiuto allorché la pretesa (in genere dell’uomo) sia eccessivamente continuativa o ripetitiva, senza alcun rispetto della sensibilità e delle esigenze dell’altro coniuge.

E’ interessante notare sotto questo profilo come, in più occasioni, la Corte di Cassazione abbia precisato che, seppure determinati tipi di rapporti o costumi sessuali particolarmente aperti, fino a giungere ad incontri con altri partner o a scambi di coppia e simili, non costituiscano alcun illecito, se vengono accettati o richiesti anche dall’altro coniuge. Dalle sentenze emergono le situazioni più disparate: dai rapporti sessuali in ascensore (Cassazione 10060/2001) alle galanterie di un idralulico che si vantava di intrattenere sessualmente entrambe le sorelle, al sesso di gruppo,  fino all’utilizzo di animali nei rapporti sessuali per finire con pratiche sadomaso di gruppo (Corte Europea 17/02/2005).
Queste decisioni sono unite da un unico filo conduttore che stabilisce  il diritto di ciascun individuo di esercitare le pratiche sessuali che ritiene nel modo più libero possibile nel rispetto dell’altra persona e fino a quando questa non si tiri indietro.
Quindi non si  censurava la particolarità dei “giochi sessuali” (ove venivano usate secondo la dizione della sentenza, fruste, aghi, pinze, cera bollente, scosse elettriche, et similia), ma l’imposizione del “gioco” quanto ad un certo punto era mancato il consenso del coniuge, pur se inizialmente consenziente.
Tutt’altro è il discorso se i rapporti fisici vengono imposti, oltrepassandosi facilmente i limiti del Codice Civile e finendo nelle previsioni del Codice Penale per maltrattamento o peggio configurandosi il reato di stupro. La Corte Suprema infatti, relativamente ai reati contro la libertà sessuale, ritiene che integri la violazione dell’art. 609 bis Codice Penale qualsiasi forma di costringimento psichico o fisico, idoneo ad incidere sull’altrui libertà di autodeterminazione, a nulla rilevando l’esistenza di una rapporto di coppia coniugale o paraconiugale fra le parti
Ciò in quanto non esiste all’interno di tale rapporto un diritto all’amplesso, nè conseguentemente il potere di esigere una prestazione sessuale, né ha valore scriminante il fatto che la donna non si opponga palesemente ai rapporti sessuali, ma li subisca, quando si provi che l’autore delle violenze e minacce poste ripetutamente in essere nei confronti della vittima, aveva la piena consapevolezza del rifiuto della stessa agli atti sessuali.
Alla fine di tutto, tenuta in considerazione la particolare intimità della questione, com’è possibile  dimostrare “l'astinenza” per colpa di un coniuge? Sussiste un unico strumento processuale: la confessione del coniuge che non ha intenzione di fare sesso!





martedì 19 settembre 2017

Data don't breach!



Interessante esperimento quello che negli USA ha portato a creare un database contenente informazioni relative ad un centinaio di consumatori inserendo dati inventati: nome, residenza, e-mail, telefono. Un’anagrafica fittizia ma studiata con attenzione affinché risultasse credibile anche ad un occhio più attento: nomi ricorrenti negli USA, indirizzi e-mail sensati rispetto al nome, numeri di telefono che corrispondono alla zona di residenza, e così via. Inoltre, i tecnici della FTC hanno inserito, per ciascuna stringa individuale, dati relativi ad uno tra tre tipici strumenti di pagamento elettronico: carta di credito, portafoglio bitcoin, ed un online payment service non meglio specificato (potrebbe trattarsi di Paypal o provider simile).Ci sono voluti solo 9 minuti prima che i malfattori che frequentano la rete provassero ad impiegare per fini illegali le identità altrui. In totale, sono stati effettuati 1.200 tentativi di utilizzo illecito dei dati. La Polizia Postale italiana dice che i furti d’identità spesso non vengono scoperti, o magari lo sono solo dopo 12-18 mesi. Perché spesso non ce ne accorgiamo nemmeno: entrano nel nostro pc, nel nostro profilo social e non lo vediamo. Una versione evoluta di ricerca credenziali è il vishing, in cui la mail ti chiede, per fregarti meglio, di chiamare un finto call center, che ti chiederà a voce quei dati. I criminali selezionano le vittime e ne osservano le abitudini, imparano chi sono e cosa fanno tramite tutte le informazioni che lasciano sui social network. Così, quando mandano la mail, sono più credibili. Come il trashing (sì, potrebbero frugare nella carta che butti al riciclo e trovare tutti i tuoi dati bancari su quell’estratto conto che hai soltanto appallottolato…). Il fenomeno del c.d. “identity theft”, ovvero del furto di identità in rete è per lo più riconducibile a due principali fattori: la errata custodia delle credenziali di autenticazione e la creazione di un account falso da parte di un terzo (c.d. "fake").
Il problema sta nel fatto che il social network, al momento della registrazione, non fornisce all'utente alcuno strumento in grado di potergli consentire una immediata capacità di individuazione dell'illecito, e quando ne viene a conoscenza, è spesso ormai troppo tardi.
 Pur non corrispondendo “materialmente” ad una sostituzione della persona, in mancanza di una fattispecie incriminatrice specifica, il furto di identità in rete viene ricondotto dalla giurisprudenza di legittimità nell'ambito del reato di cui all'art. 494 c.p., relativo alla “sostituzione di persona Sul punto, la Cassazione si è pronunciata più volte ritenendo che la condotta di chi crea ed utilizzi account o caselle di posta elettronica servendosi dei dati anagrafici di un terzo soggetto, inconsapevole, è in grado di indurre in errore, non il fornitore del servizio, bensì l'intera platea di utenti, i quali, convinti di interloquire con un soggetto, si troveranno ad interagire, invece, con una persona diversa da quella che a loro viene fatta credere, integrando così la fattispecie di reato prevista dalla norma (Cass. Pen. n. 46674/2007). L'applicabilità dell'art. 494 c.p. ricorre altresì laddove viene creato un preciso profilo al quale è associata una reale immagine della persona offesa. A tal proposito, gli Ermellini hanno ritenuto integrata la figura di reato in esame nella condotta del soggetto che realizzi e si avvalga di un determinato profilo su un social network che riproduca la foto della vittima (persona offesa) ascrivendo alla stessa una descrizione degradante e, attraverso tale identità, utilizzi il sito comunicando con gli altri iscritti e condividendone i contenuti (Cass. Pen. n. 25774/2014).Giova osservare, da ultimo, che il legislatore, con d.l. n. 93/2014 (convertito dallal. n. 119/2014) ha introdotto, per la prima volta, nel codice penale, il concetto di “identità digitale”.  Infatti, l'art. 9 del citato decreto, rubricato  Frode informatica commessa con sostituzione di identità digitale” ha modificato l'art. 640-ter c.p., con l'inserimento di un terzo comma, ove il legislatore ha previsto la pena della reclusione da due e sei anni e la multa da 600,00 euro a 3.000,00 euro nel caso in cui il fatto sia commesso mediante furto o indebito utilizzo dell'identità digitale in danno di uno o più soggetti; trattasi di un delitto per il quale è prevista la querela della persona offesa salvo che ricorra l'ipotesi di cui al 2° o 3° comma dell'art. 640-ter ovvero altra circostanza aggravante.
Emblematica in tal senso è stata la vicenda che aveva coinvolto una donna di Trieste che, subito dopo essere stata licenziata dalla sua datrice di lavoro, ha inteso vendicarsi inserendo le iniziali del nome ed il numero di telefono della stessa in una chat per incontri a sfondo sessuale, facendole così ricevere, anche in ore notturne, molteplici chiamate e messaggi provenienti da vari utenti della chat interessati ad incontri o a conversazioni di tipo erotico. Condannata per il reato di sostituzione di persona, l'autrice del "furto" giungeva fino in Cassazione, ma i Giudici del Palazzaccio rigettavano il ricorso in quanto "l'inserimento in una chat telematica di incontri personali, del numero di utenza cellulare di altra persona associato ad un nickname pure a costei riferibile, al fine di danneggiarla facendola apparire sessualmente disponibile, integra il reato di cui all'art. 494 c.p., nella modalità dell'attribuzione di un falso nome". Nelle motivazioni della sentenza in esame, il Giudice evidenzia una riflessione in merito alla natura dalla norma applicata. La tutela fornita dall'art. 494 del Codice Penale, infatti, dovendo intervenire in presenza di "inganni relativi alla vera essenza di una persona o alla sua identità o ai suoi attributi reali", potendo questi per la loro collocazione in Rete evidentemente oltrepassare la ristretta cerchia di uno specifico destinatario, non è rivolta in modo esclusivo alla fede privata e alla tutela civilistica del diritto al nome, ma ha ad oggetto in linea più ampia la pubblica fede. Ora lo sai.


venerdì 1 settembre 2017

Quanto mi costi?!



Torniamo dalla sospensione feriale pronti a correre veloci  verso nuovi adempimenti; primo tra tutti quello di redigere immediatamente un preventivo opportunamente concorrenziale. Speriamo non diventi l’ennesima corsa al ribasso!
Venendo alle novità da subito in vigore per gli avvocati si aprono le porte delle società professionali (anche spa) con soci avvocati ma anche di altre professioni per una quota di almeno i due terzi della compagine. La concorrenza incoraggia l’innovazione, fatti salvi i rischi di azzardo morale e asimmetria informativa per cui va comunque garantito l’intervento del regolatore. Di tali dinamiche traggono beneficio i consumatori, che per i servizi professionali sono spesso le imprese che operano sui mercati internazionali, ma anche i professionisti più capaci. Analizzando gli indicatori Ocse sulle professioni liberali (architetti, avvocati, ingegneri e revisori), è incoraggiante notare che l’Italia ha fatto dei passi in avanti importanti nell’apertura tra il 2008 e il 2013, passando dal penultimo al secondo posto tra i G7 (esclusi gli Usa per cui non ci sono standard federali e quindi l’indice nazionale non viene calcolato). Rimangono, insomma, sacche importanti di regole che ostacolano la concorrenza, senza che la loro introduzione e/o conferma vengano giustificate in maniera rigorosa e trasparente. Anzi, dal punto di vista della produttività le professioni stanno vivendo in Italia una stagione disastrosa: in termini reali, il valore aggiunto per addetto è diminuito del 30% dal 2000 (nel commercio, difficilmente un paradigma di virtù, si è contratto “solo” del 5% - Imf 2016). Nel campo della “liberalizzazione” delle professioni intellettuali il rapporto tra tutela della concorrenza e dei diritti fondamentali alla luce della giurisprudenza della Corte GUE e delle Corti nazionali appare assai problematico. Già l’atteggiamento della disciplina legislativa italiana è profondamente diverso rispetto a quello dell’Unione europea. 
In Italia il professionista intellettuale gode di una disciplina ad hoc (artt. 2229 c.c. ss.) - ben distinta da quella dell’imprenditore (artt. 2082 c.c. ss.) - basata sul principio della personalità della prestazione, sulla sua non fallibilità, sull’assenza di un obbligo di iscrizione del registro delle imprese e di tenuta delle scritture contabili, su di una giurisprudenza che addossa l’onere della prova della non diligenza sul cliente. Eppure non vi è una differenza “ontologica” fra l’attività dell’imprenditore in senso stretto e quella del professionista intellettuale. Fatta questa premessa, la parola “liberalizzazione” nel nostro ordinamento va intesa, come si è visto, non come una semplice e brutale abolizione di norme (c.d. “deregulation”) - che significherebbe disconoscere il limite dell’utilità sociale – ma come una razionalizzazione, un miglioramento della disciplina precedente. Le liberalizzazioni nel campo delle professioni intellettuali consentono altresì di permettere l’esercizio di una diritto, quello dell’individuo di esplicare la propria personalità mediante l’esercizio di un’attività lavorativa (cfr. artt. 1, 2, 4 e 35 Cost.), che, a differenza di quello alla libertà del diritto di iniziativa economica – che presuppone l’interferenza dell’attività economica con altri valori costituzionali e che quindi è suscettibile di limitazioni anche significative – non può che essere considerato fondamentale. Tale diritto, nel quadro della nostra Costituzione, non può però che essere bilanciato, con quello della collettività ad avere a che fare con professionisti preparati, principio a sua volta il più delle volte posto a protezione di diritti fondamentali (così, ad esempio, nel caso dell’avvocato a tutela del diritto di difesa).
Quello di cui oggi parliamo è un provvedimento da tempo sollecitato dall'Antitrust e sul quale il Parlamento nazionale ha accumulato un notevole ritardo. Nei vari passaggi parlamentari, sono state sempre confermati nuovi obblighi di comunicazione e trasparenza per tutte le professioni regolamentate.
Obblighi di comunicazione scritta o digitale al cliente, il professionista dovrà:
-rendere noto "obbligatoriamente, in forma scritta o digitale" al cliente il grado di complessita' dell'incarico, fornendo tutte le informazioni utili circa gli oneri ipotizzabili dal momento del conferimento fino alla conclusione dell'incarico e deve altresi' indicare i dati della polizza assicurativa per i danni provocati nell'esercizio dell'attivita' professionale.
- rendere nota al cliente, previamente, la misura del compenso "obbligatoriamente, in forma scritta o digitale" con un  preventivo di massima; la misura del compenso deve essere adeguata all'importanza dell'opera e va pattuita indicando per le singole prestazioni tutte le voci di costo, comprensive di spese, oneri e contributi.
Obbligo di trasparenza su titoli e specializzazioni-  Il provvedimento impone di "assicurare la trasparenza delle informazioni nei confronti dell'utenza", pertanto "i professionisti iscritti ad ordini e collegi sono tenuti ad indicare e comunicare i titoli posseduti e le eventuali specializzazioni".
Obbligo di stipula di idonea assicurazione per i rischi derivanti dall'esercizio dell'attivita' professionale, al momento dell'assunzione dell'incarico, gli estremi della polizza stipulata per la responsabilita' professionale e il relativo massimale. Fatta salva la libertà contrattuale delle parti, le condizioni generali delle polizze assicurative "prevedono l'offerta di un periodo di ultrattività della copertura per le richieste di risarcimento presentate per la prima volta entro i dieci anni successivi e riferite a fatti generatori della responsabilità verificatisi nel periodo di operatività della copertura".
L’acquisto della piena consapevolezza dell’esistenza di un diritto fondamentale in capo agli operatori economici a poter svolgere liberamente l’attività che più si desidera non può che contribuire ad innescare un processo circolare virtuoso per cui l’affermazione di tale diritto stimola le liberalizzazioni e queste ultime, contribuendo a creare ricchezza, consentono di destinare maggiori risorse a tutela dei diritti fondamentali. Ecco dunque che il perseguimento delle liberalizzazioni delle professioni intellettuali non va necessariamente a scapito dell’utilità sociale ma al contrario, come era nell’idea del Costituente, la rafforza; e il perseguimento dell’utilità sociale, a sua volta, fornisce nuovo vigore ad una politica di liberalizzazioni, da intendersi appunto, non come brutale abrogazione di norme preesistenti ma come razionalizzazione della regolazione tesa all’eliminazione di tutte e solo quelle norme che impediscano un pieno sviluppo della concorrenza e che non siano poste a presidio di diritti fondamentali. Le liberalizzazioni costituiscono l’occasione per bonificare i mercati da ogni forma di protezionismo e di privilegio e riconsegnare all’individuo nuove opportunità di ingresso nei mercati, reali forme di competizione civile e sicure garanzie per una allocazione virtuosa dei beni e dei meriti personali: una allocazione non distorta che non può non transitare attraverso i percorsi liberali di una uguaglianza sostanziale.