lunedì 7 marzo 2016

Donne e rivoluzione: ottomarzo contro il mobbing



La parola mobbing è stata coniata ufficialmente da un etologo austriaco, Konrad Lorenz che è anche l’autore di quel magnifico libro che è “l’anello di Re Salomone”. Il significato iniziale, infatti, si riferiva a tutti quegli atteggiamenti animali perpetrati da uno o più membri di un gruppo nei confronti di quello che potrebbe essere definito come l'anello debole dell'insieme, al fine di estraniare il soggetto dal resto branco e allontanarlo. Con il termine "to mob", in sostanza, si intende letteralmente: accalcarsi intorno a qualcuno, affollarsi, assalire tumultuando. Oggi si intende quella forma di terrore psicologico, esercitato, con modalità e tempistiche ben precise, in danno di un collega di lavoro, di un subordinato, di un individuo più debole, con il chiaro intento di danneggiarlo ed emarginarlo. Il mobbing si distingue in tre categorie: Il mobbing verticale (o bossing) è la classica forma nella quale si estrinseca il mobbing e consiste negli abusi e nelle vessazioni perpetrati ai danni di uno o più dipendenti da un loro diretto superiore gerarchico. In questi casi le possibilità di ribellarsi a tali atteggiamenti sono spesso molto limitate e di non facile attuazione, in ragione dei rapporti di forza sbilanciati tra mobber e mobbizzato. Il mobbing orizzontale, invece, si intende l'insieme di atti persecutori messi in atto da uno o più colleghi nei confronti di un altro, spesso finalizzati a screditare la reputazione di un lavoratore mettendo in crisi la sua posizione lavorativa. Si tratta di comportamenti difficili da fronteggiare e denunciare soprattutto se attuati da un gruppo. Per quanto raro può verificarsi il low mobbing. 
Si tratta di una serie di azioni che mirano a ledere la reputazione delle figure di spicco aziendali da parte di un buon numero di dipendenti per motivi semplici quanto futili, come antipatia o invidia. La più diffusa è il bossing. Consiste nell'esclusione dai meeting del personale dipendente e il tenere nascoste solo ad alcuni dipendenti le informazioni che usualmente vengono diffuse tra tutti. Tra gli altri, il fenomeno del ridimensionamento di ruolo nella comunità aziendale, che vede brillanti dipendenti (ritenuti potenzialmente pericolosi per lo status di alcuni alti membri del comitato direttivo a rischio) incaricati di mansioni di poco conto, come quella di fare fotocopie o gestire la posta di altri dipendenti di pari rango, che li demotivano e limitano l'espressione delle proprie capacità e conoscenze. Il mobbing, non a caso, riguarda spesso grandi aziende, le quali lo utilizzano per aggirare la normativa a tutela dei licenziamenti cagionando nel lavoratore "sgradito" una condizione di stress psico-fisico, idonea a determinarlo ad abbandonare di sua "spontanea volontà" il luogo di lavoro.
 Esso può anche essere la conseguenza del rifiuto, da parte della vittima, delle avances del superiore o del collega poi divenuto mobber. Una forma più attenuata di mobbing è il cd. “Straining” ovvero una situazione di stress forzato sul posto di lavoro, in cui la vittima subisce almeno una azione che ha come conseguenza un effetto negativo nell’ambiente lavorativo, azione che oltre ad essere stressante, è caratterizzata anche da una durata costante. Affinché si possa parlare di straining è dunque sufficiente una singola azione stressante cui seguano effetti negativi duraturi nel tempo (come nel caso di gravissimo demansionamento o di svuotamento di mansioni). Questa definizione è stata coniata dalla Corte di Cassazione sez. penale che con la sentenza n. 28603 del 03 luglio 2013 qualificò i comportamenti ed episodi di emarginazione di mobbing attenuato.
In ambito penalistico il mobbing è il reato che non esiste! I comportamenti mobbizzanti, infatti, a determinate condizioni possono cagionare delle conseguenze riconducibili al reato di lesioni personali di cui all'articolo 590 del codice penale, le molestie o gli atti persecutori. Il mobbing è un atto di violenza consapevole, una vessazione che scava nell’autostima e nella gioia di vivere trasformando il lavoro in un incubo. Le donne, per varie ragioni, in Italia e nel resto del mondo sono le più colpite. Facciamo il punto. Stando all’ultimo monitoraggio dell'Ispesl, Istituto per la prevenzione e la sicurezza del lavoro che sul mobbing ha aperto un centro d'ascolto, nel nostro Paese sono circa un milione e mezzo i lavoratori vittime di questa vessazione. Il problema è più diffuso al nord (65 per cento) e, come già detto, colpisce maggiormente le donne (52 per cento). Il 70 per cento delle vittime lavora nella pubblica amministrazione, con una produttività che mediamente, in seguito ai primi episodi di violenza, cala del 70 per cento. Tra le categorie più esposte gli impiegati (79 per cento) e, tra questi, i diplomati (52 per cento) e i laureati (24 per cento). E, secondo l’ultimo rapporto Eurispes, i superiori restano i principali responsabili (87,6 per cento) ma spesso l'aguzzino è un collega (39,2 per cento). Tra gli impiegati di azienda la differenza è più netta: abbiamo un 38,5 per cento di uomini contro un 61,5 di donne, dato da cui si evince quanto queste, nel privato, siano maggiormente costrette a sopportare violenze di ogni tipo, per via di una possibile maternità presente o futura o di probabili impegni familiari”.
 Ad essere vessati sono, principalmente, i soggetti più deboli, quindi le donne incinte o che hanno famiglia numerosa e i disabili. Le donne mobbizzate sono in numero maggiore rispetto agli uomini perché quelle in maternità, ad esempio, rappresentano un peso per l’azienda, quasi tutte stanno a casa quando i figli si ammalano, e più ne hanno e più creano danno con le assenze. Rispetto agli uomini, poi, sono molte di più le donne che usufruiscono delle agevolazioni previste dalla legge 104/92 per la cura dei disabili, quindi sono loro, di solito, a occuparsi di familiari gravemente ammalati e le assenze, di massimo tre giorni al mese, danno fastidio. In altri termini, si puniscono le condotte mobbizzanti facendo ricorso ad altri reati. La condotta del mobbing può essere punita a titolo di lesioni quando il mobber abbia pregiudicato la salute psichica. A titolo di violenza sessuale quando abbia costretto a compiere o subire atti sessuali. Altrettanta tutela offre il reato di molestie, quello di minaccie quello di maltrattamenti quando i soprusi siano periodici. Queste, sono solo alcune delle, molteplici, forme di tutela attraverso cui il lavoratore potrà difendersi, sporgendo un'apposita querela contro il responsabile. Sarà necessario dimostrare che la malattia del lavoratore sia conseguenza immediata e diretta della condotta mobbizzante. Se già a dirlo è molto complicato, figuriamoci a farlo. I disturbi tipici dello stress sono, infatti, multi-fattoriali perciò non è agevole dimostrare che il malessere derivi proprio dal lavoro. Il mobbing è una nozione civilistica che presenta alcune somiglianze con il reato di atti persecutori, presupponendo entrambi come elementi costitutivi la reiterazione di atti aventi determinate caratteristiche di induzione di sofferenza nel soggetto passivo. E’ la ripetitività, la pluralità, la costanza dei comportamenti, la consapevolezza del loro numero e la previsione nel soggetto passivo che essi si ripeteranno e diventeranno più invasivi a costituire l’aspetto essenziale delle due fattispecie di illecito. In entrambe si deve attuare una sorta di progressione, che nella figura tipica si svolge tendenzialmente in senso peggiorativo e diventa sempre più insopportabile sino a che non si verifica l’evento, costituito dalle ripercussioni negative sulla persona della vittima che attengono alla sfera della riservatezza, della dignità e della libertà morale del destinatario, suscettibili di riverberarsi sulla stessa integrità fisica, quale somatizzazione di sofferenze morali e psichiche. Mentre il mobbing si caratterizza per forme sfumate di vessazione, il reato di atti persecutori richiede come elemento costitutivo comportamenti che, di per sé, costituirebbero reati autonomi occorrendo infatti per la configurazione del reato molestie e/o minacce. Pertanto rispetto ad una mera condotta di mobbing l’incriminazione si basa innanzitutto sull’aver posto in essere azioni già di per sé punibili penalmente. Mobbing e stalking sono accomunati inoltre dai pregiudizi causati sulla vittima di tipo morale (mortificazione, sensazioni di abbandono, emarginazione), psichico (depressione, mutamento del carattere) e psicosomatico concretanti patologie conclamate e riconoscibili. Pertanto, la linea differenziale tra la figura civilistica e quella rilevante come delitto viene a risiedere nelle modalità materiali con le quali è posta in essere la condotta abusante: se il comportamento vessatorio rivela la perpetrazione di fatti di per sé rilevanti penalmente, quali le minacce e le molestie, l’autore viene a trovarsi esposto all’esercizio dell’azione penale. 
Ciò premesso, il fatto che in alcune sentenze penali si sia parlato di mobbing, sta perciò soltanto a significare che si è voluta dare una etichetta a comportamenti di per sé penalmente rilevanti ai fini ad esempio del delitto di maltrattamenti in famiglia o di violenza privata. Come già sottolineato per il mobbing nei rapporti familiari, la menzione di esso nel contesto delle pronunce penali ha soltanto il valore di ricorso a concetti conosciuti per far intendere la realtà degli episodi che costituivano la materia del decidere ed a completamento della motivazione dei provvedimenti. Un pensiero positivo ci viene dal Flash mob (dall'inglese flash, lampo, inteso come evento rapido, improvviso, e mob, folla), termine coniato nel 2003 per indicare un assembramento improvviso di un gruppo di persone in uno spazio pubblico, che si dissolve nel giro di poco tempo, con la finalità comune di mettere in pratica un'azione insolita. Il raduno viene generalmente organizzato via internet (posta elettronica, reti sociali) o telefonia cellulare. Le regole dell'azione di norma vengono illustrate ai partecipanti pochi minuti prima che questa abbia luogo, ma se necessario possono essere diffuse con un anticipo tale da consentire ai partecipanti di prepararsi adeguatamente. http://www.comune.venezia.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/1410



domenica 28 febbraio 2016

I dottori del diritto curano la miopia dei senatori

L'unione civile è un atto che comporta il riconoscimento da parte dell'ordinamento giuridico delle coppie di fatto al fine di stabilirne i diritti e i doveri. La tipologia delle unioni civili è varia: in particolare, può riguardare sia le coppie di sesso diverso (eterosessuali) sia le coppie dello stesso sesso (omosessuali). Il legislatore italiano si è occupato con ritardo della questione, mentre l’orientamento della giurisprudenza è verso un pieno riconoscimento della famiglia omosessuale. Addirittura il Ministero dell’Interno con una circolare (n. 0010863 del 7 ottobre 2014) rivolge ai Sindaci invito formale al ritiro ed alla cancellazione della trascrizione nei registri dello stato civile di tali matrimoni, “in quanto la disciplina dell’eventuale equiparazione di matrimoni omosessuali a quelli celebrati tra persone di sesso diverso e la conseguente trascrizione di tali unioni nei registri dello stato civile rientrano nella competenza esclusiva del Legislatore”
Mancando, finora, una disciplina del rapporto di convivenza al di fuori del matrimonio, si è discusso sulla possibilità, per le coppie di fatto, di disciplinare in maniera autonoma la convivenza attraverso l’ammissibilità di una disciplina contrattuale. L’evoluzione antesignana del pensiero giuridico è aperta in tal senso: va rilevato che, nell'ambito della libertà contrattuale e nei limiti posti dalla legge, le coppie di fatto possono regolare gli apporti dei singoli conviventi alle esigenze della vita comune ed eventualmente quelli successivi alla cessazione della convivenza tramite appositi accordi, detti comunemente patti o contratti di convivenza, mediante atto pubblico o scrittura privata autenticata. Per fare alcuni esempi, i conviventi possono stabilire le regole che riguardano l'abitazione comune, le spese (tra l'altro, nulla vieta ad una coppia di fatto di aprire un conto corrente cointestato), la disciplina dei beni acquistati durante la convivenza. I conviventi possono anche regolare la cessazione della convivenza e prevedere che uno di essi debba versare all'altro una certa somma, o prevedere a favore di un solo convivente il diritto di abitazione sull'immobile precedentemente utilizzato dalla coppia. Va ancora ricordato che è possibile nominare il convivente come amministratore di sostegno, mediante atto pubblico o scrittura privata autenticata, in previsione di una propria eventuale futura incapacità di intendere e di volere. Il ritardo inoportuno del legislatore continua anche nella regolamentazione della maternità/paternità.  
La Corte Costituzionale ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità sollevata dal Tribunale sulla così detta stepchild adoption. A sollevare la questione, il Tribunale di Bologna, l'Avvocatura dello Stato aveva chiesto che il ricorso fosse dichiarato inammissibile, sottolineando che più volte a tutela dei minori i tribunali hanno accolto l'istanza di adozione di coppie gay, applicando la norma che disciplina le adozioni nei casi particolari. La questione di leggimità sottoposta alla Consula dai giudici bolognesi era relativa alle legge 184/1983 sulle adozioni. Nel caso specifico, una delle due donne, unite in una civil partnership negli Stati Uniti d'America nel 2008 e sposate dal 2013, avente doppia cittadinanza, italiana e statunitense, ha avanzato presso il Tribunale per i minorenni di Bologna, richiesta di riconoscimento della sentenza Usa che ha disposto l`adozione piena della figlia biologica di sua moglie. Nello specifico, il caso bolognese ricalca esattamente la previsione dell'articolo 5 del DDL sulle unioni civili che si avvia ad essere stralciato. 
Secondo i giudici "il Tribunale di Bologna ha trattato la decisione straniera come un'ipotesi di adozione da parte di cittadini italiani di un minore straniero (cosiddetta adozione internazionale), mentre si trattava del riconoscimento di una sentenza straniera, pronunciata tra stranieri". A questo si aggiunga che già 2012 la Corte di Cassazione sulla scia dei precedenti orientamenti, ha affermato che i componenti della coppia omosessuale, a prescindere dall'intervento del legislatore in materia, sono titolari del diritto alla vita familiare, del diritto inviolabile di vivere liberamente una condizione di coppia e del diritto alla tutela anche davanti ai giudici di specifiche situazioni, precisando che la differenza di sesso non è più da considerare quale requisito essenziale del matrimonio.



















lunedì 22 febbraio 2016

Stat sua cuique dies

"A ciascuno è dato il suo giorno" è un frammento delle parole di Giove a Ercole, nel X libro dell' Eneide di Virgilio. Ercole, l'Alcide, piange per l'approssimarsi della morte di Pallante per mano di Turno, e il padre degli dèi lo consola con queste parole. Esistono dei casi in cui la legge prevede che sui documenti venga apposta una data certa. Ed il pensiero corre al testamento. La data certa, di fatto, consiste nella prova della formazione di un documento in un determinato arco temporale o, comunque, nella prova della sua esistenza anteriormente ad uno specifico evento o una specifica data. In mancanza di tali elementi, la legge riconosce alle parti la possibilità di dedurre e dimostrare con ogni mezzo di prova il momento in cui essa è stata formata. Questo perché la data è un elemento spontaneamente posto dai firmatari del documento e nulla garantisce che gli stessi non abbiano indicato un giorno diverso da quello effettivo (per esempio, ricorrendo alla retrodatazione). Così, per esempio, si potrebbe dimostrare di aver firmato un contratto o una quietanza in un determinato giorno e occasione grazie ad eventuali testimoni, presenti sul posto. 
La prova testimoniale, però, a differenza di quella documentale, è liberamente valutabile dal giudice e non sempre garantisce margini di certezza Tuttavia, in alcuni casi, anche in assenza della data, l’elemento temporale di formazione e firma è comunque ricavabile da altri elementi esterni (si pensi al caso della raccomandata ove fa fede il timbro postale che certamente supera l’indicazione delle parti; si pensi anche al telegramma o al fax o alla posta elettronica certificata dove l’attestazione inviata del gestore della PEC garantisce la certezza della data di spedizione e di consegna). L’argomento si collega alla disciplina civilistica in materia di prove documentali e, in particolare, a quanto previsto dagli artt. 2703 e 2704 c.c., dai quali si desumono gli strumenti tipicamente utilizzabili, appunto, per l’attribuzione di una data certa ai documenti. Oltre alla redazione di un atto pubblico, all’autenticazione di un notaio o altro pubblico ufficiale ed alla registrazione dell’atto presso un ufficio pubblico, la legge prevede che possa conferire data certa anche ogni altro fatto che stabilisca in modo ugualmente certo l’anteriorità della formazione del documento (art. 2704 c.c., 3 comma). 
Per conferire data certa a un documento si ricorre di norma alla registrazione del documento, attraverso pagamento della relativa imposta di registro. Nel caso in cui la registrazione non sia possibile, come nel caso di morte o sopravvenuta impossibilità fisica del sottoscrittore, si ricorre alla riproduzione della scrittura in un atto pubblico. Ci sono diversi modi per applicare la data certa sui documenti, ma il più semplice è quello di ricorrere ad un ufficio postale che provvederà all’apposizione di un timbro. Prima di recarsi all’ufficio postale, è bene assicurarsi che il documento presenti dei determinati requisiti: deve formare un corpo unico (ovvero deve essere stampato e rilegato in un modo che non permetta l’aggiunta o la rimozione di pagine) e sulla prima pagina deve essere presente la dicitura “si richiede l’apposizione del timbro per la data certa”, seguita da data e firma. I giudici di merito, però, nella nota sentenza della Suprema Corte n. 13912/2007 si sono ritenuti contrari a questa modalità perché di regola il timbro non è apposto nello stesso foglio in cui è riportata la scrittura, per cui si afferma che il timbro apposto sulla busta non attribuisce certezza giuridica al contenuto in essa racchiuso. Molto semplicemente, basterà recarsi all’ufficio postale e richiedere il servizio di data certa. Sul primo foglio del documento va apposta l’affrancatura con i francobolli, che verrà annullata con l’apposizione del timbro da parte dell’ufficio postale (in pratica come se dovessimo spedire il documento). Il timbro va apposto sulla prima pagina, dove viene anche indicato il numero delle pagine e la dicitura “a corpo unico”. È onere di chi contesta la certezza della data provare che è stato apposto il timbro su un foglio bianco, che solo successivamente è stato riempito (Trib. Mantova sent. del 13.06.2003). Il timbro apposto in un pubblico ufficio equivale a un’attestazione autentica che il documento è stato inviato nel giorno in cui essa è stata apposta come conferma la Cassazione nella sent. n. 8438/2012. 
Il Codice dell’Amministrazione Digitale ha introdotto una serie di semplificazioni legate all’utilizzo delle procedure informatiche che si applicano anche ai privati; in particolare, ai fini della data certa il decreto prevede all’articolo 20 comma 3 che “la data e l’ora del documento informatico sono opponibili ai terzi se apposte in conformità alle regole tecniche sulla validazione temporale”, tra queste l’apposizione della cosiddetta marca temporale sui documenti informatici: il sistema basa la propria modalità di certificazione della marca temporale su un procedimento informatico regolamentato dalla legge, che permette di attribuire ad un oggetto digitale o documento informatico una data ed un orario in modo certo ed opponibile a terzi. La marca temporale può essere anche associata alla firma digitale su documento sia informatico con la conseguenza che, in caso di documenti cartacei, contratti, fax, etc, prima di tutto occorrerà effettuare una scansione, per poi apporre al documento informatico così ottenuto la data certa. E così s’è fatto tardi molto presto, direbbe il Dr. Seuss.

domenica 14 febbraio 2016

Nota breve sul plagio musicale




La polemica montata dopo l'intervento di Vittorio Cosma, che in questa edizione del Dopofestival, ha avuto l'ingrato compito di analizzare i brani, dal punto di vista strettamente musicale, e individuarne eventuali somiglianze con altre canzoni alla sola ricerca di assonanze melodiche, ha riportato alla ribalta la normativa sul plagio, dopo aver segnalato la somiglianza tra il brano di Dolcenera “Ora o mai più” e “You make me feel like a natural woman” di Aretha Franklin. Per onore di cronaca ci piace segnalare che sono 69 i titoli identici a quello della canzone interpretata da Dolcenera: il precedente che ha fatto storia nella musica pop è targato Mina, 1965. Per la legge n. 633 del 22 aprile 1941 sul diritto d’autore il plagio consiste nella riproduzione dell’opera altrui spacciandola per propria, sia essa già pubblicata o inedita. Non vi è invece plagio se l’opera viene riprodotta per uso privato. Quando, invece, una persona si appropria di elementi di un'opera per introdurli in un'altra opera sotto il proprio nome, ci troviamo in presenza di una contraffazione, ossia di una riproduzione abusiva di un'opera altrui e non di un’attribuzione di paternità. Tuttavia, per legge, l'opera simile all'originale, per essere realmente definita plagio, deve suscitare nell'ascoltatore le stesse emozioni dell'originale. Liberiamo il campo dalle false convinzioni: non esiste un criterio prestabilito per stabilire quando si commette plagio. A tutt'oggi, la giurisprudenza è incerta se siano sufficienti 4 o 8 battute per definire un plagio. Così, non trovano corrispondenza nella legge, le voci secondo cui il plagio scatterebbe solo dopo aver copiato almeno sette note consecutive o otto battute.Un tale rigido sistema  sarebbe fallace perché non terrebbe in considerazione l’enorme varietà dei brani: sette note consecutive sono una parte insignificante di una composizione orchestrale, ma possono rappresentare l’intero cuore di un brano semplice di musica pop. Proprio per tale ragione, la giurisprudenza non ha dettato criteri “matematici” per potersi parlare di plagio, ma ritiene che si debba valutare caso per caso, dando particolare rilievo alla linea melodica. Spesso, infatti, per classificare come plagio una canzone, basta che nell'ascoltatore essa susciti il riconoscimento di un pezzo antecedente al brano ipotizzato essere un plagio. A nulla, peraltro, rilevando l’originalità del brano stesso. In una nota sentenza, la Corte di Appello di Milano (sent. 24.11.1999), ha infatti stabilito che non è tutelabile dal diritto d’autore il brano di musica leggera che, per la semplicità della melodia, simile a numerosi precedenti, sia carente del requisito dell’originalità. Soprattutto però è importante saper riconoscere il "plagio" da una "somiglianza" oppure da una "cover". Il plagio di una composizione musicale può riguardare anche una parte della composizione stessa. Anche un motivo non del tutto banale presente nel ritornello di una canzone può formare oggetto di plagio quando sia stato ripreso con particolare insistenza e risalto.
Accadde nel 1960 per la canzone “Romantica”, scritta e interpretata da Renato Rascel. “Ci fu una denuncia per plagio: il dottor Nicola Festa, veterinario e musicista per diletto, accusò Renato di aver copiato “Romantica” da un suo brano intitolato “Angiulella” – racconta Giuditta Saltarini, vedova di Rascel – In tribunale il querelante si presentò con Ildebrando Pizzetti, il padre riformatore del melodramma italiano, in veste di perito di parte. Renato volle rispondere con un colpo di teatro altrettanto clamoroso e schierò a difesa della sua composizione quell’autentica superstar del neoclassicismo che era e sarà sempre considerato Igor Stravinsky”. Il quale fu evidentemente più convincente del collega visto che il giudice riabilitò totalmente “Romantica” mandando assolto il popolare artista romano. Con riferimento alla musica leggera, si ritiene che essa sia priva di complessità e originalità perché normalmente composta da strofe e ritornelli; l’armonia è di ambito tonale non elevato; la timbrica fa ricorso a strumenti elettronici con effetti di colore; la melodia è di facile intonazione e memorizzazione. Dunque, nella musica leggera vi sono semplici e ricorrenti elementi che consentono ampi margini di analogie solo occasionali. Per cui, nel giudicare un’ipotesi di plagio nel campo della musica “non impegnata”, si deve essere più tolleranti, fermo restando che si possono accertare elementi di originalità e di difformità anche in un contesto ricco di banalità e di interferenze. In altre parole, quanto minore è l’originalità dell’opera, tanto più rigorosi devono essere i criteri di accertamento. Per verificare se sussistano plagi nella musica leggera, si guarda più al ritornello che alla strofa.  La  sentenza  n. 9854 del 15 giugno 2012 della cassazione ha individuato alcune condizioni affinché il ritornello di una composizione possa definirsi un plagio: 
1. i due ritornelli devono presentare una successione di note del tutto somigliante
2. il nucleo centrale delle due composizioni deve ruotare intorno alla stessa successione di note del ritornello, cioè quella combinazione di note maggiormente idonea a contraddistinguere il brano e ad imprimersi nella memoria degli ascoltatori; 
3. la sola diversità ritmica dei due ritornelli non è sufficiente a conferire al ritornello il carattere della creatività, devono infatti concorrere anche i due elementi della melodia e della armonia.
Ma cosa ne sa un giudice di musica pop, vi potreste chiedere. Il giudice provvede alla nomina di un CTU (consulente tecnico d'ufficio) per redigere una perizia giurata, ed al quale viene proposto l'ascolto dei due brani (l'originale e l'eventuale plagio). Se il giudice riconosce le ragioni dell'attore (colui che intraprende l'azione legale), l'autore del plagio rischia il ritiro del pezzo dal mercato con sanzioni salatissime, oppure che gli introiti vengano devoluti all'autore originale Spesso anche gli stessi CTU sono tutt’altro che univoci nelle loro indagini.
Per esempio, nel citato caso giudiziario tra Al Bano Carrisi e Michael Jackson, prima di arrivare a un giudizio di colpevolezza nei confronti di quest’ultimo, ci sono volute tre diverse perizie e l’accertamento che ben 37 note sulle 40 che componevano la melodia dei due brani erano identiche. Tra i plagi più evidenti della storia della musica, ricordo come “I giardini di marzo” di Battisti abbia qualcosa in comune a Mr. Soul” di Neil Young; “La donna chevorrei” di Gigi D’Alessio sia simile in modo imbarazzante a “Babe, I’m gonnaleave you” dei Led Zeppelin; o ancora come Ballo Ballo” di Raffaella Carrà sia strettamente imparentata con “Eleanor Rigby” dei Beatles. Un evidentissimo caso di plagio è quello che ha visto Eric Carmen, autore della pluricoverizzata “All By My Self” (nota la versione di Mariah Carey), trascrivere le note del compositore russo Rachmaninov nel suo “Concerto per piano e orchestra op. 2”, terzo movimento (Adagio sostenuto). In verità, non si tratta di vero e proprio plagio, posto che l’opera di Rachmaninov è diventata ormai di pubblico dominio e non è più protetta dal diritto d’autore. Era il 1996 quando il cantautore Francesco De Gregori, nel suo album “Prendere e lasciare”, inserì la canzone “Prendi questa mano, zingara”, il cui titolo e il primo verso riprendevano una nota canzone (“Zingara”) scritta nel 1969 da Enrico Riccardi e Luigi Albertelli. Nonostante ci fosse una parola differente (il testo originale recita «Prendi questa mano, zingara, dimmi pure che destino avrò» mentre De Gregori cantava «Prendi questa mano, zingara, dimmi pure che futuro avrò»), gli autori ritenevano che la loro canzone fosse stata plagiata. Il giudice di prime cure inibì la diffusione del brano. Il risultato si ribaltò in sede d’appello poichè la corte territoriale considerata la totale diversità del resto del testo della canzone, ritenne l’incipit una semplice citazione.
Misero fine alla discussione lasciando libera la musica i i giudici della Suprema Corte che con la sentenza n. 3340/2015 hanno affermato che «In tema di plagio di un’opera musicale un frammento poetico-letterario di una canzone che venga ripreso in un’altra non costituisce di per sè plagio, dovendosi accertare da parte del giudice di merito, se il frammento innestato nel nuovo testo poetico-letterario abbia o meno conservato una identità di significato poetico-letterario ovvero abbia evidenziato, in modo chiaro e netto, uno scarto semantico rispetto a quello che ha avuto nell’opera anteriore». Sappiamo benissimo che abbiamo sette note nel pentagramma e considerandole da sole, e cioè senza le loro variazioni, è difficile non risultare ripetitivi o scarsi nel lavorare con la fantasia, perchè non bisogna dimenticare che la musica si basa anche sulla matematica e che il numero di combinazioni di queste sette note non è infinito, per questo prima di lanciare l’allarme di plagio è bene tener d'occhio il tema, l’atmosfera e l'elaborazione di un brano.


domenica 7 febbraio 2016

Per la gioia di Sgarbi

E’ ufficialmente partita il 15/01/2016 l’opera di depenalizzazione. In base, infatti al nuovo decreto legislativo diverse le fattispecie criminose sono state trasformate in illeciti amministrativi comportando modifiche al codice penale allo scopo di deflazionare il sistema penale. Tra le varie tipologie di reato s’inserisce anche il reato d’ingiuria disciplinato all’art. 594 c.p.. Le modifiche delle citate fattispecie in illeciti amministrativi riguarda anche le violazioni commesse prima dell’entrata in vigore del decreto suddetto (il cosiddetto principio del favor rei), mentre rimangono ferme le condanne passate in giudicato, divenute appunto definitive. 
Ad ogni modo, si ricorda che il colpevole mantiene la facoltà di potersi difendere contro la nuova sanzione, intentando opposizione e avendo così modo di dimostrare la propria condizione di innocenza. Per quanto attiene, poi, ai reati modificati in illeciti civili, la sanzione pecuniaria viene applicata dal giudice competente a conoscere dell’azione di risarcimento del danno, al termine del giudizio solo nel caso in cui accolga la domanda di risarcimento proposta dalla persona offesa cui viene lasciata la facoltà di poter decidere se se agire o meno contro il soggetto, non essendo prevista la trasmissione d’ufficio degli atti dal giudice penale o dalla Procura a quello civile competente all’irrogazione della nuova sanzione. Nel caso di condanna, lo Stato, rimasto fuori dal procedimento, ha così modo di ripresentarsi per incassare la sanzione civile. Qualora, al contrario, la vittima decida di non agire, il fatto resta in tal modo impunito mentre il soggetto responsabile non sarà tenuto a versare nulla, nemmeno nei confronti dello Stato.

  REATI CONTRO LA PERSONA
Ingiuria (Articolo 594)
Reclusione fino a 6 mesi o multa fino a 516 € – Reclusione fino a 1 anno o multa fino a 1.032 € (con attribuzione di fatto determinato)
Sanzione civile da 100 a 8.000 € – Sanzione pecuniaria civile da 200 a 12.000 € (con attribuzione di fatto determinato o commesso in presenza di più persone)


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