Visualizzazione post con etichetta libertà. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta libertà. Mostra tutti i post

martedì 19 settembre 2017

Data don't breach!



Interessante esperimento quello che negli USA ha portato a creare un database contenente informazioni relative ad un centinaio di consumatori inserendo dati inventati: nome, residenza, e-mail, telefono. Un’anagrafica fittizia ma studiata con attenzione affinché risultasse credibile anche ad un occhio più attento: nomi ricorrenti negli USA, indirizzi e-mail sensati rispetto al nome, numeri di telefono che corrispondono alla zona di residenza, e così via. Inoltre, i tecnici della FTC hanno inserito, per ciascuna stringa individuale, dati relativi ad uno tra tre tipici strumenti di pagamento elettronico: carta di credito, portafoglio bitcoin, ed un online payment service non meglio specificato (potrebbe trattarsi di Paypal o provider simile).Ci sono voluti solo 9 minuti prima che i malfattori che frequentano la rete provassero ad impiegare per fini illegali le identità altrui. In totale, sono stati effettuati 1.200 tentativi di utilizzo illecito dei dati. La Polizia Postale italiana dice che i furti d’identità spesso non vengono scoperti, o magari lo sono solo dopo 12-18 mesi. Perché spesso non ce ne accorgiamo nemmeno: entrano nel nostro pc, nel nostro profilo social e non lo vediamo. Una versione evoluta di ricerca credenziali è il vishing, in cui la mail ti chiede, per fregarti meglio, di chiamare un finto call center, che ti chiederà a voce quei dati. I criminali selezionano le vittime e ne osservano le abitudini, imparano chi sono e cosa fanno tramite tutte le informazioni che lasciano sui social network. Così, quando mandano la mail, sono più credibili. Come il trashing (sì, potrebbero frugare nella carta che butti al riciclo e trovare tutti i tuoi dati bancari su quell’estratto conto che hai soltanto appallottolato…). Il fenomeno del c.d. “identity theft”, ovvero del furto di identità in rete è per lo più riconducibile a due principali fattori: la errata custodia delle credenziali di autenticazione e la creazione di un account falso da parte di un terzo (c.d. "fake").
Il problema sta nel fatto che il social network, al momento della registrazione, non fornisce all'utente alcuno strumento in grado di potergli consentire una immediata capacità di individuazione dell'illecito, e quando ne viene a conoscenza, è spesso ormai troppo tardi.
 Pur non corrispondendo “materialmente” ad una sostituzione della persona, in mancanza di una fattispecie incriminatrice specifica, il furto di identità in rete viene ricondotto dalla giurisprudenza di legittimità nell'ambito del reato di cui all'art. 494 c.p., relativo alla “sostituzione di persona Sul punto, la Cassazione si è pronunciata più volte ritenendo che la condotta di chi crea ed utilizzi account o caselle di posta elettronica servendosi dei dati anagrafici di un terzo soggetto, inconsapevole, è in grado di indurre in errore, non il fornitore del servizio, bensì l'intera platea di utenti, i quali, convinti di interloquire con un soggetto, si troveranno ad interagire, invece, con una persona diversa da quella che a loro viene fatta credere, integrando così la fattispecie di reato prevista dalla norma (Cass. Pen. n. 46674/2007). L'applicabilità dell'art. 494 c.p. ricorre altresì laddove viene creato un preciso profilo al quale è associata una reale immagine della persona offesa. A tal proposito, gli Ermellini hanno ritenuto integrata la figura di reato in esame nella condotta del soggetto che realizzi e si avvalga di un determinato profilo su un social network che riproduca la foto della vittima (persona offesa) ascrivendo alla stessa una descrizione degradante e, attraverso tale identità, utilizzi il sito comunicando con gli altri iscritti e condividendone i contenuti (Cass. Pen. n. 25774/2014).Giova osservare, da ultimo, che il legislatore, con d.l. n. 93/2014 (convertito dallal. n. 119/2014) ha introdotto, per la prima volta, nel codice penale, il concetto di “identità digitale”.  Infatti, l'art. 9 del citato decreto, rubricato  Frode informatica commessa con sostituzione di identità digitale” ha modificato l'art. 640-ter c.p., con l'inserimento di un terzo comma, ove il legislatore ha previsto la pena della reclusione da due e sei anni e la multa da 600,00 euro a 3.000,00 euro nel caso in cui il fatto sia commesso mediante furto o indebito utilizzo dell'identità digitale in danno di uno o più soggetti; trattasi di un delitto per il quale è prevista la querela della persona offesa salvo che ricorra l'ipotesi di cui al 2° o 3° comma dell'art. 640-ter ovvero altra circostanza aggravante.
Emblematica in tal senso è stata la vicenda che aveva coinvolto una donna di Trieste che, subito dopo essere stata licenziata dalla sua datrice di lavoro, ha inteso vendicarsi inserendo le iniziali del nome ed il numero di telefono della stessa in una chat per incontri a sfondo sessuale, facendole così ricevere, anche in ore notturne, molteplici chiamate e messaggi provenienti da vari utenti della chat interessati ad incontri o a conversazioni di tipo erotico. Condannata per il reato di sostituzione di persona, l'autrice del "furto" giungeva fino in Cassazione, ma i Giudici del Palazzaccio rigettavano il ricorso in quanto "l'inserimento in una chat telematica di incontri personali, del numero di utenza cellulare di altra persona associato ad un nickname pure a costei riferibile, al fine di danneggiarla facendola apparire sessualmente disponibile, integra il reato di cui all'art. 494 c.p., nella modalità dell'attribuzione di un falso nome". Nelle motivazioni della sentenza in esame, il Giudice evidenzia una riflessione in merito alla natura dalla norma applicata. La tutela fornita dall'art. 494 del Codice Penale, infatti, dovendo intervenire in presenza di "inganni relativi alla vera essenza di una persona o alla sua identità o ai suoi attributi reali", potendo questi per la loro collocazione in Rete evidentemente oltrepassare la ristretta cerchia di uno specifico destinatario, non è rivolta in modo esclusivo alla fede privata e alla tutela civilistica del diritto al nome, ma ha ad oggetto in linea più ampia la pubblica fede. Ora lo sai.


sabato 7 gennaio 2017

Il pianista della parola




"Un avvocato? È un pianista della parola", scriveva Pierre Véron giornalista francese nella seconda metà del diciannovesimo secolo. Per Gandhi, colui che ha la funzione di unire parti lacerate a pezzi. Un qualcosa che simbolicamente ha più a che fare con la "manualità", con il maneggiare con perizia uno strumento, che non con la conoscenza astratta di una teoria. Nella realtà, ogni avvocato ha un suo "metodo" per gestire una lite e per convincere delle sue ragioni: un "metodo" personale e non scambiabile Questo perché ogni uomo ha un suo modo di vedere le cose, una visione del mondo, una "weltanschauung" a cui non può e non deve rinunciare. E' l'esperienza - intesa come modo di esperire e di sentire le cose - che forma il proessionista, non la teoria. 
Quest'ultima fornisce soltanto gli strumenti, di certo indispensabili, ma come usarli lo si impara sulla propria pelle. Nel rapporto con il cliente si deve imparare a calibrare l’empatia, per instaurare un vero rapporto di fiducia per meglio comprendere le ragioni del cliente, con il distacco, per vedere le cose e di agire con lucidità e senza quell'animosità che potrebbe impedirci una reale e obiettiva comprensione dei fatti. E’ un "mestiere al negativo", a cui la gente ricorre per risolvere i problemi. Al riguardo Martin Seligman, coniatore del «concetto» della psicologia positiva, psicologia che non si occupa solo di patologie, ma di incrementare il benessere delle persone senza particolari problemi, riportando di seguito parte di un articolo di Silvia deSantis apparso sull’Huffington post:Come mai gli avvocati hanno il 3,6% di probabilità in più di cadere in depressione o divorziare rispetto alla norma? 
Martin Seligman, psicologo e saggista statunitense spiega che ciò dipende dal fatto che, per lavoro, hanno abituato la propria mente a pensare in negativo. Gli avvocati migliori, infatti, sono i più pessimisti. Il pessimismo è visto come un “plus” tra i legali, perché vedere problemi ovunque è un tipico atteggiamento della prudenza, fondamentale per chi svolge questa professione. Essere previdente permette a un avvocato di considerare tutte le trappole e le situazioni negative in cui può incorrere il proprio assistito. La capacità di calcolare in anticipo una serie di conseguenze, difficili da immaginare per chi è digiuno di legge, consente all’avvocato di costruire al meglio la difesa”. Oltre questa analisi psicologico-strategica è inevitabile, prima di concludere, prendere in considerazione anche l’aspetto sociologico per rendersi conto che l’avvocato deve anche essere multidimensionale: sviluppare nuove capacità di ascolto, di identificazione degli interessi, di inquadramento e investigazione dei problemi, e di elaborazione di sistemi di soluzioni che possano offrire vantaggi reciproci. 
L’avvocato deve aspirare ad essere un vero e proprio consigliere piuttosto che un mero esperto del diritto. Inoltre, l’avvocato multidimensionale dovrebbe essere in grado di comprendere i peculiari contesti nei quali i clienti possono trovarsi, contesti in cui il senso comune e l’istinto potrebbero fallir. I professionisti del diritto posseggono d'altra parte un grande potenziale per incentivare atteggiamenti riflessivi nei loro clienti. Nelle loro conversazioni coi clienti, gli avvocati dovrebbero cercare di fornire a questi ultimi la possibilità di giocare un ruolo nella risoluzione dei loro stessi problemi. Inoltre, dovrebbero facilitare la comprensione degli aspetti legali della questione da parte dell’interessato, attraverso informazioni accessibili. Dovrebbero altresì sforzarsi di responsabilizzare il cliente affinchè, attraverso una più ampia comunicazione con i soggetti coinvolti, il diritto possa reclamare il ruolo di guida morale per la nostra civiltà.

domenica 17 luglio 2016

Diversamente amabili




Quest’anno sembra essere quello che vuole superare pregiudizi e barriere. Su questa scia, sempre lungimirante e visionaria, ancora una volta è la regione Toscana che intende porsi quale capofila perché si ritorni ad esaminare ed affrontare lo scabroso tema della sessualità per i disabili. Per questo, da qualche anno ormai, in Europa e nel mondo si sta diffondendo la figura dei "love giver" ovvero degli assistenti sessuali. In Italia pende il disegno di legge 1442 del 24 Aprile2014 “Disposizioni in materia di sessualità assistita per persone condisabilità” ed è assegnato alla commissione igiene e sanità del Senato ma ad oggi è praticamente fermo. Tra i primi firmatari c'è il parlamentare Lo Giudice e la senatrice Cirinnà (sì, sempre lei!). Prima di proseguire sarà bene intenderci sul significato di disabile, cioè colui che per ripercussioni negative patisce una riduzione oltre la norma di una o più funzioni sensoriali, motorie e/o psichiche”. Il termine handicap, utilizzato nel linguaggio corrente per definire tali situazioni, è mutuato dal linguaggio ippico, nel quale indica la penalizzazione che nei concorsi di equitazione viene inflitta (in termini di tempo, distanza o penso) ai cavalli favoriti, al fine di offrire le stesse possibilità di vittoria anche a quelli meno favoriti. 
Dunque, se è vero che “con un handicap ben congegnato tutti i concorrenti hanno le stesse possibilità di vittoria” (cfr. C. Hanau, Handicap, cit. p. 67), per quanto riguarda le persone l’interesse da perseguire non è evidentemente quello di penalizzare i “superdotati”, bensì quello di sostenere gli svantaggiati con misure che equiparano o, comunque, tendano all’equiparazione delle posizioni di partenza. Questa urgenza non nasce quindi dal fatto che la figura della madre si sia emancipata al punto da portare il proprio figlio a prostitute e pagare fino a 500 euro, o al punto di masturbarlo lei stessa, o perché si diffondono notizie come quella del ragazzo spinto dalla madre a cercare una prostituta per il fratello con disabilità. L’urgenza, voglio credere sia, quella d’includere il disabile nella società, in una società che sia educata alla disabilità. Partire da un impulso sessuale, intimo per proiettarsi, poi, a costruire nuove prospettive tali da creare l’indipendenza per il disabile. In particolare, è stata rivalutata la disabilità non come “mancanza” quanto – piuttosto – come una dimensione della diversità umana nella consapevolezza che il cuore del problema non risiede nella condizione della disabilità in quanto tale, ma nei contesti sociali e culturali in cui essa emerge. A rompere il tabù, come già detto, è la Regione Toscana con una proposta di risoluzione che impegnerà la Giunta ad andare verso il riconoscimento dell’assistente sessuale per i disabili. Attraverso la sua professionalità supporta le persone diversamenteabili a sperimentare l’erotismo e la sessualità. Questo operatore, formato da un punto di vista teorico e psicocorporeo sui temi della sessualità, permette di aiutare le persone con disabilità fisico-motoria e/o psichico/cognitiva a vivere un’esperienza erotica, sensuale e/o sessuale. 
Gli incontri, infatti, si orientano in un continuum che va dal semplice massaggio o contatto fisico, al corpo a corpo, sperimentando il contatto e l’esperienza sensoriale, dando suggerimenti fondamentali sull’attività autoerotica, fino a stimolare e a fare sperimentare il piacere sessuale dell’esperienza orgasmica. Quanto appena rappresentato si traduce nel diritto delle persone con disabilità a fruire di condizioni minime per un’esistenza libera e soprattutto dignitosa, nella consapevolezza, come ebbe a dire la Corte Costituzionale che tra i compiti cui lo Stato non può in nessun caso abdicare v’è proprio quello di “contribuire a che la vita di ogni persona rifletta ogni giorno e sotto ogni aspetto l’immagine universale della dignità umana” (Corte Costituzionale, sentenza 25 febbraio 1988 n. 217).Come sancito dall’ Organizzazione Mondiale della Sanità (1974) “la salute sessuale è l’integrazione degli aspetti somatici, affettivi, intellettuali e sociali nell’essere sessuato al fine di pervenire ad un arricchimento della personalità umana, della comunicazione e dell’amore”.Ciò considerato, è possibile affermare che la dignità umana di un individuo – abile e non abile – viene a manifestarsi anche per mezzo della propria sessualità. Sul punto, è sufficiente far riferimento alla Convenzione sui diritti dellepersone con disabilità, stipulata a New York il 13 dicembre 2006 (ratificata dall’Italia per effetto degli artt. 1 e 2 della legge 3 marzo 2009 n. 18). Il trattato in esame riconosce espressamente (lett. n del preambolo) “l’importanza per le persone con disabilità della loro autonomia ed indipendenza individuale, compresa la libertà di compiere le proprie scelte” (collocati nel novero dei “principi generali”, v. art. 3 della Convenzione).
La stessa Convenzione, all’art. 12 comma IV (“uguale riconoscimento dinanzi alla legge) chiaramente statuisce “Gli Stati devono assicurare che le misure relative all’esercizio della capacità giuridica rispettino i diritti, la volontà e le preferenze della persona, che siano scevre da ogni conflitto di interesse e da ogni influenza indebita, che siano proporzionate e adatte alle condizioni della persona, che siano applicate per il più breve tempo possibile e siano soggette a periodica revisione da parte di una autorità competente, indipendente ed imparziale o di un organo giudiziario”. Sotto altro angolo prospettico potrebbe venire in rilievo il concreto esercizio di questo diritto, qualora la sessualità non fosse consapevolmente vissuta dal disabile. In questo caso, sarebbe opportuno ipotizzare l’adozione di strumenti di monitoraggio e sostegno tramite i servizi sociali o i Consultori. E dove questi, potrebbero risultare insufficienti, attraverso l’autorità penale sopprimerne la mercificazione.


domenica 5 giugno 2016

Fine pena mai: la morte viva



Aldo Moro nelle sue lezione universitarie avvertiva gli studenti, ma forse anche il legislatore e i politici: «Ricordatevi che la pena non è la passionale e smodata vendetta dei privati: è la risposta calibrata dell’ordinamento giuridico e, quindi, ha tutta la misura propria degli interventi del potere sociale, che non possono abbandonarsi ad istinti di reazione e di vendetta, ma devono essere pacatamente commisurati alla necessità, rigorosamente alla necessità, di dare al reato una risposta quale si esprime in una pena giusta». Oggi affrontiamo un tema che certamente farà discutere ma che non si uò tralasciare a lungo ormai è necessario prendere una ferma posizione su quelli che dovrebbero essere diritti costituzionalmente garantiti. L'ordinamento italiano, che contempla la pena dell'ergastolo ma consente di mitigarne il rigore grazie ai benefici penitenziari, preclude a determinate categorie di ergastolani (c.d. ostativi) l'accesso a tali misure premiali. Sono 1.600 (erano 408 all’approvazione della legge) gli ergastolani in carcere condannati per reati che impediscono il loro accesso alle alternative al carcere e, tra esse, alla liberazione condizionale, l’unico istituto che consente a chi abbia già scontato almeno 26 anni di pena detentiva di non morire in carcere. Sono, insomma “ergastolani ostativi”. 
Pochi sanno che la pena dell’ergastolo di oggi non è più quella di una volta, perché ora i tipi di ergastolo sono due: quello normale, che manca di umanità, proporzionalità, legalità, eguaglianza ed educatività, ma ti lascia almeno una speranza, per quanto incerta, di poter uscire in permesso dopo 10 anni, dopo 20 anni in semilibertà e dopo 26 anni in libertà condizionale; poi c’è quello ostativo, che ti condanna a morte facendoti restare vivo, senza nessuna speranza. Per meglio comprendere la questione bisogna avere presente la legge 356/92 che introduce nel sistema di esecuzione delle pene detentive una sorta di doppio binario, nel senso che, per taluni delitti ritenuti di particolare allarme sociale, il legislatore ha previsto un regime speciale, che si risolve nell’escludere dal trattamento extramurario i condannati, a meno che questi collaborino con la giustizia: per questo motivo molti ergastolani non possono godere di alcun beneficio penitenziario e di fatto sono condannati a morire in carcere. La finalità rieducativa della pena? 
Se per “rieducazione” intendiamo un concreto processo di reinserimento sociale cui deve tendere la pena – e non una semplice emenda morale che il reo raggiunge chiuso nella sua cella al termine dei suoi giorni – è del tutto evidente che una pena senza fine (“MAI” era scritto nel fascicolo degli ergastolani alla voce “fine pena”, prima che l’automazione informatica imponesse un codice numerico: 99/99/9999) non è costituzionalmente ammissibile. Inoltre, un’adeguata valutazione dell’altro principio costituzionale per il quale le pene non devono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità, sarebbe anch’esso sufficiente a motivare l’incostituzionalità di una misura che non offre alcun fine alla vita umana se non quella di soffrire e morire per essere d’esempio negativo ad altri.
Tutti questi argomenti erano già in scena quando il legislatore decise che bisognasse impedire legalmente ai condannati per delitti gravi o legati alla criminalità organizzata di accedere alle misure alternative.
Ma allora molti credevano veramente che in Italia l’ergastolo mai si scontasse per intero. Oggi no. Con la preclusione all’accesso alle alternative, la gran parte degli ergastolani sconta la propria pena per intero, fino al 99/99/9999.


La preclusione alle alternative stabilita dalla legge non è assoluta, ma può essere aggirata collaborando con la giustizia, o dimostrando di non poterlo fare, di non aver nulla da dire. E dunque, secondo la Corte Costituzionale, l’ergastolano che non accede alle alternative è causa del suo stesso male. Evidentemente ai giudici della Corte non è venuto in mente che quel modo di sfuggire alla morte civile ha qualcosa di terribilmente inquisitorio: un pubblico ministero sente che io potrei sapere qualcosa su un fatto di reato; sente, ma non sa (altrimenti non me lo chiederebbe e procederebbe altrimenti); se io gli confermo le sue sensazioni, in cambio potrò avere una prospettiva di liberazione condizionale, e magari prima qualche permesso-premio; se non gli confermo quelle sensazioni (perché non so o perché “non voglio mettere un altro al posto mio”, come dice Carmelo Musumeci) marcirò in galera per il resto della mia vita. Non chiamiamola tortura, per carità, ma libera scelta proprio no.