mercoledì 17 settembre 2014

Questioni di lana caprina: separazione e divorzio fai da te




"Fare questioni di questo genere, significa cavillare, esaminare con eccessiva pignoleria, insistere pedantemente su cose prive di vera importanza”.

Altra bella definizione enciclopedica: "De lana caprina (Di lana caprina)  locuzione latina utilizzata in riferimento a qualcosa di cui si parla, per evidenziare l'inanità o la superfluità del discorrerne. Il significato è quindi parlare di qualcosa di inutile, privo d'importanza o di attinenza all'argomento della discussione.

Il decreto legge in materia di Giustizia approvato più di due settimane fa dal Consiglio dei Ministri, è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale e, per alcune parti, è già operativo. Una di queste, prevede la semplificazione delle procedure di separazione e divorzio, grazie al ricorso a quella che è stata definita “negoziazione assistita”.

In sostanza, la coppia che decide di separarsi o divorziare consensualmente, lo potrà fare senza alcuna necessità di rivolgersi al Tribunale, dato che sarà sufficiente sottoscrivere il relativo accordo, firmato anche  dall’avvocato, e poi trasmetterlo in copia autentica, nel termine di 10 giorni, all’ufficiale delle stato civile del comune dove è stato iscritto il matrimonio, oppure “trascritto” in caso di matrimonio concordatario. Sarà, anzi, possibile rivolgersi direttamente all’ufficiale dello stato civile, anche senza l’intervento del legale.

In pratica, la nuova normativa semplifica “quello che è già abbastanza facile”, perché le procedure consensuali godono già adesso di una corsia preferenziale in quasi tutti i tribunali del Paese. Mentre, invece, non cambia nulla quando manca il completo accordo dei coniugi, rendendo così indispensabile il ricorso alla separazione o al divorzio “giudiziale”, con conseguente allungamento dei tempi.

Non cambia nulla nemmeno in relazione ai tempi necessari per richiedere il divorzio (tre anni dalla separazione); almeno fino a quando il Senato non avrà approvato (sempre che lo faccia senza modifiche) il provvedimento già passato in prima lettura alla Camera dei Deputati. Una volta approvata in via definitiva, basteranno sei mesi dalla separazione consensuale ed un anno da quella giudiziale, per ottenere il divorzio.

Va peraltro sottolineato che questa semplificazione nelle procedure, già entrata in vigore con il decreto legge pubblicato venerdì 12 settembre sulla G.U., non riguarda i casi in cui ci siano figli minori; oppure anche maggiorenni, se affetti da gravi handicap o non autosufficienti economicamente.

Infatti, il c.d. “divorzio fai da te”, facilita, semplifica, velocizza e rende certamente più economica la separazione ed il divorzio; ma solo (sic) in caso di accordo consensuale dei coniugi ed in assenza di figli minori o anche per i maggiorenni, nei casi specifici  appena citati.

Pertanto, all’entusiasmo di chi applaude a tale riforma presentandolo come un “testo rivoluzionario” “un atto di civiltà, grande segno di riforma liberale” (Cit. On. Concia), rimangono pur sempre dubbi e forti perplessità.
In primis la riduzione dei tempi di decorrenza per l’ottenimento dl divorzio non semplifica la procedura, né  la macchina del contenzioso legale che al contrario avrebbe potuto conoscere un reale cambiamento nell’unificazione della separazione e divorzio in un unico atto di certo applicabile in tutti i casi di coppie in accordo a divorziare o sprovviste di figli minori.
A conferma di ciò,  la circostanza che nel 98% dei casi ogni separazione si trasforma in divorzio sia in Italia, che a Malta, in  Irlanda del Nord e Polonia, dove la separazione legale è ancora obbligatoria e necessaria per la proposizione della domanda di divorzio.

Costituisce poi una reale problematica anche  l’attuale proposta che distingue  tra figli minorenni e maggiorenni. Tale innovazione, folle e controproducente cosi come definita dall’Avv. Alessandro Gerardi, Tesoriere della Lega Italiana del divorzio breve, costituisce presupposto di ulteriore conflitto per i genitori di minorenni che , al contrario, dovrebbero vedere semplificata, più degli altri, la procedura di divorzio al fine di accelerare quello sgancio che facilita i rapporti genitoriali nell’interesse dei minori, utilizzati strumentalizzati proprio dal vincolo che la coppia continua ad avere fino al divorzio stesso.

La società italiana, nei profondi cambiamenti socio-culturali negli ultimi quaranta anni, ormai da troppo tempo chiede un intervento rapido ed efficace del legislatore al fine di ottenere un’amministrazione della giustizia meno dispendiosa, lenta e farraginosa.






venerdì 12 settembre 2014

L'ingiuria e le sue possibili varianti


Con il termine ingiuria, secondo quanto stabilito dall’art. 594 c.p., si intende l’offesa all’onore e al decoro di una persona "presente".
Sia l’ingiuria che la diffamazione, quest’ultima contemplata dall’art. 595 c.p., consistono in manifestazioni del pensiero. In particolare, secondo quanto stabilito dall’art. 594 c.p., l’ingiuria consiste nell’offesa all’onore ed al decoro di una persona “presente”.
All’interno dell’art. 594 c.p., l’onore viene distinto dal decoro, con la conseguenza che deve ritenersi che la prima espressione sia intesa in senso stretto, ovvero come indicativa delle sole qualità morali. Il decoro, invece, va riferito alle altre qualità e condizioni che concorrono a costituire il valore sociale dell’individuo.
A causa della estrema variabilità dei concetti di onore e di decoro, la linea di confine tra il penalmente illecito e ciò che non è tale, come, ad esempio, una mera scortesia o impertinenza, è spesso molto sottile, rimanendo affidata al saggio apprezzamento del giudice, il quale deve valutare tutte le circostanze del caso concreto.
Secondo quanto stabilito dall’art. 597 c.p., l’ingiuria è perseguibile a querela di parte. Se la persona offesa decede prima della presentazione della querela, questa può essere proposta da un prossimo congiunto, o dal suo adottante o adottato, sempre che non sia decorso il termine di tre mesi dal giorno in cui il defunto aveva avuto notizia del fatto che costituisce reato.
La condotta incriminata consiste nell’offesa all’onore e al decoro della persona, ovvero, in ultima analisi, in una manifestazione di disprezzo.
L’offesa deve essere commessa in presenza del soggetto passivo (nel caso contrario, infatti, sussisterebbe la diversa fattispecie di diffamazione).
Secondo un certo orientamento, ai fini della configurabilità del reato di ingiuria, non è necessario che il soggetto a cui le espressioni offensive vengono rivolte sia in grado di percepirle ed in effetti le percepisca. Ciò in quanto l'oggetto della tutela penalistica va individuato in termini più ampi, nel valore della dignità umana in quanto tale, ed è dunque irragionevole escludere dalla protezione i soggetti incapaci.
  Potrà trattarsi, come più spesso accade, di ingiuria verbale, commessa con l’utilizzo della parola, ma non è da escludere che l’offesa possa essere manifestata mediante scritti o disegni o immagini. .
Anche i comportamenti materiali possono integrare la fattispecie in esame (ingiuria reale), come nel caso dello sputo, di suoni sconci o di lievissime condotte violente (schiaffo) che abbiano come obiettivo quello di imporre alla vittima una sofferenza solo morale e non fisica.
E’ possibile individuare una ingiuria indiretta, laddove l’offesa colpisce una persona diversa da quella cui apparentemente è indirizzata (ad esempio, “tuo padre non ti ha insegnato l’educazione”), una ingiuria obliqua, nella quale l’offesa consiste in domande o negazioni (esempio, “sei stato tu a rubare?”) e una ingiuria simbolica, quando l’espressione, apparentemente innocente, contiene allusioni offensive.

IL "VAFFA" NON E' PIU' UN OFFESA
Non sarà «politicamente corretto» ma lo è ormai "giuridicamente". Dire a qualcuno vaffanculo, è espressione comune di un linguaggio scadente, maleducato e volgare ma non rischia una condanna per ingiuria chi spedisce qualcun altro a quel paese. Perché quell' espressione è talmente inflazionata «da aver perso in un certo senso la sua carica offensiva». Addio per sempre dunque al bon ton nelle discussioni e riunioni politiche e in mille occasioni di vita quotidiana. Lo ha stabilito la Suprema Corte di Cassazione con una decisione che non aiuterà certo ad abbassare i toni degli alterchi tra i consiglieri comunali, tra i parlamentari, e tra i colleghi d' ufficio (la «parità» di posizione gerarchica è condizione essenziale perché «il fatto non sussista») ma che, vista la litigiosità degli italiani, sicuramente contribuirà ad alleggerire la macchina giudiziaria di migliaia di pratiche che adesso potranno essere archiviate. Non potranno invece sperare nella scriminante «linguistica» gli alunni che mandano a quel paese gli insegnanti o gli automobilisti che spediscono nello stesso posto i vigili urbani.

SCATTA L'INGIURIA ANCHE SE L'EPITETO E' ESPRESSO CON IL LABIALE

Scatta il reato di ingiuria anche se gli insulti sono espressi esclusivamente attraverso i movimenti delle labbra. La Corte di cassazione, con la sentenza n. 8558/2012, ha respinto il ricorso dell’imputata già condannata a 200 euro di multa ed al risarcimento dei danni e delle spese dal giudice di pace di Gallipoli, sentenza poi confermata dal tribunale di Lecce, per aver proferito alla vicina gli epiteti “faccia di troia, faccia di puttana”   

E' INGIURIA DIRE "NON HAI LE PALLE"

Va bene l’evoluzione, anzi l’involuzione del linguaggio, verso la «volgarizzazione delle modalità espressive», tuttavia, la sentenza 30719/2012 ha stabilito che, chi durante una accesa discussione, si rivolge al contendente apostrofandolo con la frase «non hai le palle» commette il reato di ingiuria perché mette in dubbio non tanto la virilità dell'avversario quanto la sua determinazione e coerenza, «virtù che a torto o a ragione continuano a essere individuate come connotative del genere maschile».
Al contrario è lecito dire «non rompere le palle, equivalente all'invito a non intralciare l'opera di qualcuno», lo stesso non vale quando, come nel caso in questione, si vuole dire «non hai gli attributi, ossia vali meno degli altri uomini». In questo caso la valenza offensiva è maggiore e l’accusa è ancora più grave «se pronunciata in ambiente di lavoro». 
LA SUOCERA E' UNA VIPERA ANCHE PER LA SUPREMA CORTE

Non costituisce ingiuria dare della "vipera" alla suocera, se ciò avviene in un contesto familiare teso, senza che sia leso il decoro o l'onore della persona. E' quanto emerge dalla sentenza 4 febbraio 2014, n. 5227 della Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione, che ribalta la pronuncia di merito, perché il fatto non sussiste. Per i giudici di legittimità, secondo i quali "Se è vero che il reato di ingiuria si perfeziona per il solo fatto che l’offesa al decoro o all’onore della persona avvenga alla sua presenza, è altrettanto vero che non integrano la condotta di ingiuria le espressioni che si risolvano in dichiarazioni di insofferenza rispetto all’azione del soggetto nei cui confronti sono dirette e sono prive di contenuto offensivo nei riguardi dell’altrui onore e decoro, persino se formulate con terminologia scomposta e ineducata".
Infatti, continuano gli ermellini, "la frase sopra riportata, pronunciata dopo un contrasto che aveva determinato l'intervento delle forze dell'ordine e per descrivere, nella concitazione del momento, le modalità dell'azione della suocera, non si connota in termini di offensività idonei a giustificare l'attivazione della tutela penale".

 VIETATO DIRE AD UNA DONNA "SEI UNA NAVE SCUOLA!



Vietato paragonare le donne alle navi scuola, con riferimento alla vastità delle loro trascorse relazioni amorose. Condannato, infatti, dalla Cassazione, con la sentenza 37506/2014, un ex marito siciliano di Messina che spesso, quando vedeva la moglie separata, nei primi tempi della rottura, aveva il brutto vizio di dirle "sei una nave scuola", e per essere ancora più chiaro aggiungeva "hai sempre avuto amanti". Ad avviso della Suprema Corte, "i termini rivolti dall'imputato alla ex moglie si rivelano chiaramente offensivi secondo l'apprezzamento della generalità dei consociati", ossia in base al comune sentire della maggior parte delle persone. Per questo, la Cassazione ha respinto la tesi dell'imputato (classe 1960) che voleva scampare alla condanna penale sostenendo che quelle frasi erano solo parole di "tenue" contenuto offensivo sulle quali si poteva chiudere un occhio. 

NOVITA' LEGISLATIVE DEL 2016: LA DEPENALIZZAZIONE

E’ ufficialmente partita il 15/01/2016 l’opera di depenalizzazione. In base, infatti al nuovo decreto legislativo diverse le fattispecie criminose sono state trasformate in illeciti amministrativi comportando modifiche al codice penale allo scopo di deflazionare il sistema penale. Tra le varie tipologie di reato s’inserisce anche il reato d’ingiuria disciplinato all’art. 594 c.p.. Le modifiche delle citate fattispecie in illeciti amministrativi riguarda anche le violazioni commesse prima dell’entrata in vigore del decreto suddetto (il cosiddetto principio del favor rei), mentre rimangono ferme le condanne passate in giudicato, divenute appunto definitive. Ad ogni modo, si ricorda che il colpevole mantiene la facoltà di potersi difendere contro la nuova sanzione, intentando opposizione e avendo così modo di dimostrare la propria condizione di innocenza. Per quanto attiene, poi, ai reati modificati in illeciti civili, la sanzione pecuniaria viene applicata dal giudice competente a conoscere dell’azione di risarcimento del danno, al termine del giudizio solo nel caso in cui accolga la domanda di risarcimento proposta dalla persona offesa cui viene lasciata la facoltà di poter decidere se se agire o meno contro il soggetto, non essendo prevista la trasmissione d’ufficio degli atti dal giudice penale o dalla Procura a quello civile competente all’irrogazione della nuova sanzione. Nel caso di condanna, lo Stato, rimasto fuori dal procedimento, ha così modo di ripresentarsi per incassare la sanzione civile. Qualora, al contrario, la vittima decida di non agire, il fatto resta in tal modo impunito mentre il soggetto responsabile non sarà tenuto a versare nulla, nemmeno nei confronti dello Stato.
  REATI CONTRO LA PERSONA
Ingiuria (Articolo 594)
Reclusione fino a 6 mesi o multa fino a 516 € – Reclusione fino a 1 anno o multa fino a 1.032 € (con attribuzione di fatto determinato)
Sanzione civile da 100 a 8.000 € – Sanzione pecuniaria civile da 200 a 12.000 € (con attribuzione di fatto determinato o commesso in presenza di più persone)







martedì 9 settembre 2014

Reato di omicidio stradale: perplessità tecnico-giuridiche

L'incidente stradale può essere definito come l’evento avverso, improvviso, inaspettato ed indesiderato che si verifica sulla strada e nel quale sono coinvolti uno o più veicoli e una o più persone.
Sotto il profilo delle possibili conseguenze giuridiche, gli incidenti stradali possono essere ripartiti a seconda che da essi derivino soltanto danni alle cose, oppure che ne risultino anche lesioni alle persone o la morte di una o più di esse.
L’incidente stradale a causa e per effetto del quale derivano solo danni alle cose, si risolve di solito in via stragiudiziale, mediante il risarcimento dei danni di una parte verso l’altra, a seconda delle singole responsabilità.
Nel nostro ordinamento giuridico il reato di danneggiamento è punito solo a titolo di dolo. Perciò, l’incidente stradale con solo danni alle cose, non vedrà mai l’intervento dell’Autorità Giudiziaria penale, la quale è competente a conoscere ed a decidere soltanto di fatti che costituiscono reato.
Le lesioni personali e l’omicidio sono invece punibili anche a titolo di colpa; dunque se in conseguenza dell'incidente derivano lesioni alle persone o la morte di una o più persone, vi potrebbero essere responsabilità penalmente rilevanti a carico di uno o più dei protagonisti dell'incidente.
Quando dall’incidente stradale derivano soltanto lesioni alle persone, indipendentemente dal tipo e dalla durata della malattia patita dalla persona infortunata, l’intervento dell’autorità giudiziaria penale è condizionato dall’esercizio del diritto di querela da parte della persona offesa nei confronti di colui che le lesioni ha provocato. L’esercizio di questo diritto è condizione necessaria per l’esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero. Quando, invece, dall’incidente deriva la morte di una o più persone, il pubblico ministero agisce di iniziativa, essendo in questo caso obbligatorio l’esercizio dell’azione penale.
Al giudice civile o penale, a seconda della competenza, spetta di accertare le cause che hanno determinato il fatto, di decidere e pronunciarsi in ordine alle responsabilità dei protagonisti; responsabilità che potranno essere solo di natura civile, cui conseguirà per il responsabile l’obbligo di risarcire il danno prodotto; oppure civili e penali, per cui al responsabile, oltre al dovere di risarcire il danno, può essere applicata la sanzione penale.
L’art. 140 del nuovo codice della strada (cod. str.), afferma un principio immanente nel nostro ordinamento e che impone ad ogni utente stradale di comportarsi in modo tale da non costituire pericolo o intralcio per la circolazione ed in modo che sia, in ogni caso, salvaguardata la sicurezza stradale; i singoli comportamenti, sono fissati dalle norme previste dal codice citato
La norma di diritto pubblico, quindi, non tutela un particolare bene della collettività, ma in generale, è finalizzata a tutelare la sicurezza stradale e a prevenire - mediante l’imposizione di ordini ed il rilascio di speciali autorizzazioni per l’uso della strada - ogni possibile episodio che possa minacciarla od anche, semplicemente turbarla.
Ora, il sinistro stradale non è un evento imprevedibile - salvo rarissimi casi, che vorremmo definire, in certo qual modo, “fisiologici” - ma senz’altro riconducibile ad un comportamento umano non conforme a comuni regole di prudenza, di perizia e di diligenza nella guida ovvero, di inosservanza di regole giuridiche di comportamento; è tanto pleonastico affermarlo, quanto utile ricordarlo: se il comportamento di guida avvenisse secondo tali regole giuridiche e di civile convivenza, ben rari sarebbero gli episodi in cui un sinistro si verrebbe a verificare.
Ecco che quindi, se non altro, l’analisi e lo studio di ogni sinistro stradale, tende a far conoscere un comportamento di guida inidoneo e che, nel caso di specie, riguarda direttamente il conducente.
Alla parola "conducente" la mente corre ad un argomento di grande attualità che necessita di una soluzione in tempi brevi. Sì, la mente si rivolge alla guida in stato d'ebbrezza o sotto l'effetto di sostanze stupefacenti la cui conseguenza sia un sinistro stradale con decesso delle persone coinvolte.


Tutti auspicano però tempi celeri, con l’introduzione dell’arresto in flagranza (ora non sono previste misure cautelari), l’aumento della pena da 3 a 10 anni fino a 8-18, oltre al cosiddetto “ergastolo della patente”. Chi ucciderà a causa di incidenti stradali dovuti all’effetto di alcol o droga dovrà dire per sempre addio alla licenza di guida. 
Quella delle morti sulla strada è ormai un’emergenza. Lo confermano i numeri e le statistiche, fornite da occhioallastrada.it gli incidenti stradali negli ultimi dieci anni nel comune di Firenze e le loro cause: «Secondo le analisi, il 30% degli incidenti gravi è associabile all’alcool, il 40% dei decessi di pedoni è causato da motocicli e ciclomotori e oltre il 80% di morti e feriti sono pedoni e motociclisti. Gli incidenti mortali sono causati nell’87% dei casi da adulti con più di 25 anni. E l’80% di questi sono maschi», si legge. Si spiega anche a cosa servirebbe l’aumento della pena:
«Passare da una pena di 3-10 anni per aver ucciso una persona in un incidente quando si è sotto l’effetto di alcol e droga a 8-18 anni significa essere certi che non ci siano patteggiamenti e riti abbreviati che possano far evitare completamente il carcere».
Da sempre l'organizzazione civile deve e vuole razionalizzare il sistema normativo vigente ai fatti storici che richiedono maggiore attenzione come negli anni 70/80 in cui si puniva con maggiore severità il reato di sequestro di persona proprio in forza di un'urgenza sociale. Nello specifico sull'omicidio stradale per comminare pene più elevate, o si agisce sull'omicidio volontario con dolo eventuale, operando però una forzatura del concetto giuridico sottostante, perché il dolo eventuale presuppone che chi agisce metta in conto le conseguenze della propria condotta ma se ne disinteressi; oppure si rafforzano le pene previste per l'omicidio colposo, che non presuppone cioé la volontà di uccidere.
E' necessario evitare l'irrazionalità, in questo rafforzamento, il nuovo provvedimento si deve innestare organicamente con l’attuale quadro normativo altrimenti il sistema sanzionatorio diventa discrezionale, senza proporzionalità tra un certo tipo di reato e un altro. Le attuali sanzioni già prevedono pene da tre a 10 anni per l'omicidio colposo con violazione delle norme sulla circolazione stradale con le aggravanti per la guida in stato di ebbrezza e sotto l'effetto di droga".
E l'ergastolo della patente? "Il ritiro e sospensione della patente sono gia' previsti. Il fatto che  non la si  possa più riavere per tutta la vita, é davvero una cosa logica? 


Il rigore sanzionatorio svincolato dalla ragione per cui infliggiamo la pena si traduce in vendetta sociale.




martedì 2 settembre 2014

Ianua advocati pulsanda pede



"Prima cosa ammazziamo tutti gli avvocati" (Amleto)


"Cosa sono 1000 avvocati incatenati al fondo dell'oceano? Un buon inizio..." (Tom Hanks)

 


Queste due battute a distanza di 400 anni l’una dall’altra sono il modo migliore per aprire l’argomento su una delle professioni da sempre più discusse. Perché, diciamoci la verità, appena si parla di “avvocati” la prima idea che corre è quella di difensori dei diritti o azzeccagarbugli abili solo a far assolvere i colpevoli? Professionisti della logica o dotati retori? La linea di confine è così labile che l’immaginario collettivo li ha sempre collocati a cavallo tra la menzogna e il rigore.

La parola “avvocato” deriva dal latino advocatus sostantivo derivante dal participio passato del verbo advoco = ad-vocatum = chiamato a me, vale a dire "chiamato per difendermi", cioè "difensore".

L’odio da sempre legato al legale va a braccetto con la parola “parcella“: un peso che ha trascinato questa categoria nel più profondo girone dantesco. Perché bisogna pagare per far valere i propri diritti? In realtà, la risposta è la stessa per cui bisogna remunerare un medico per godere di buona salute o aprire un mutuo per avere un tetto sotto cui dormire.

I primi avvocati erano anche filosofi, e questo perché non esistevano corpi legislativi definiti e certi. Erano, insomma, la classe che non zappava, ma guardava le stelle. Un’anima teorica che, a quanto sembra, è rimasta sino ad oggi.

Ciò che, però, si ignora è che, ai tempi dei romani, il compenso dell’avvocato era la fama, acquisita la quale si poteva pensare d’intraprendere la carriera politica. In quel periodo sussisteva il divieto di ricevere denaro in cambio delle proprie prestazioni professionali e la violazione di tale precetto era sanzionata con una pena pecuniaria. Il divieto, sin da allora e secondo buona prassi italica, veniva sistematicamente raggirato poiché era consentito – proprio come avviene oggi nei migliori ambienti della pubblica amministrazione – accettare doni e regalie da parte dei clienti riconoscenti. Da qui venne il detto: “ianua advocati pulsanda pede” (“alla porta dell’avvocato si bussa col piede”, visto che le mani sono occupate a reggere i doni).

“La giurisprudenza estende la mente e allarga le vedute”: una considerazione che, seppur vera, si scontra con la prassi. Il carattere di un avvocato, infatti, è permaloso e presuntuoso. Provate a fargli cambiare idea: se ci riuscirete sarà solo perché lui vi ha fatto credere così. In realtà, ogni avvocato resta sempre della propria idea. Giusta o sbagliata che sia. Ed anche dopo la sentenza che gli dà torto. A sbagliare è sempre il giudice o la legge.

L’avvocato è una persona abituata a fare domande e, nello stesso tempo, ad essere evasivo a quelle che gli vengono rivolte. È solito prendere decisioni e a prenderle in fretta (calcolate la differenza di tempi con un ingegnere e vedrete!). È dotato di problem solving e il suo obiettivo è trovare l’escamotage per uscire fuori dal problema, in qualsiasi modo possibile.

Inoltre, l’avvocato, nell’esercizio della propria professione, è un irriducibile individualista: se ne sta nel suo studio, a coltivare le sue pratiche, e l’idea dell’associativismo gli fa venire l’orticaria.

Egli considera ogni minuto sottratto al proprio lavoro una perdita di tempo. Il tempo appunto: ogni legale nasce con l’orologio al polso, e questo perché la vita professionale è costellata di scadenze.

Così come la caratteristica di ogni buon medico è quella di scrivere le ricette con una grafia incomprensibile, dote di ogni avvocato è parlare con un linguaggio mai chiaro per il cittadino. Tra latinismi, istituti, tecnicismi, concettualismi, astrazioni, teorie e interpretazioni, commi, articoli, leggi, leggine e sentenze, il vocabolario del legale è precluso ad ogni persona che non sia, appunto, un altro legale. E questo – a quanto sembra – gratifica infinitamente ogni avvocato che si rispetti.

Su tutto, però, l’avvocato è un relativista nell’accezione più pirandelliana del termine. La realtà non esiste (e chi se ne frega!): esiste solo ciò che appare dalle carte. Tutto il resto è mutevole, contraddittorio, variabile, volubile, capriccioso, instabile. Tanto vale non pensarci e accontentarsi di ciò che racconta il cliente.

Si dice che il problema dell’avvocatura sia il numero. Su 9.000 giudici, in Italia ci sono circa 220.000 avvocati.
in Italia nel corso degli anni è andata progressivamente crescendo una grande inflazione nel numero di avvocati: poco dopo la fine degli anni novanta del XX secolo, quando in Francia esercitavano solo ottomila avvocati sull'intero territorio nazionale, fu l'ex vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura Giovanni Verde a dire che nella sola provincia di Napoli c'erano più avvocati che Oltralpe
Quel paragone venne riesumato dal presidente reggente della corte d'Appello di Roma, Claudio Fancelli, che alla cerimonia di inaugurazione dell'anno giudiziario 2008 per inciso accolla lo sfascio del processo civile e penale all'«abnorme numero di avvocati» presenti nella città di Roma. In quell'occasione Fancelli non fece numeri, ma dichiarò: 
« L' abnorme numero di avvocati iscritti all' Ordine forense, a Roma tanti quanti l' intera Francia, può inconsapevolmente determinare il rischio di un incremento del ricorso dei cittadini alla giurisdizione e quindi, stante la carenza strutturale di risorse, un allungamento dei tempi processuali»
 
In realtà, il problema sarebbe di gran lunga più grave se di avvocati ve ne fossero pochi, circostanza che aprirebbe le porte alla scarsità e, quindi, a tariffe ancora più alte e a una certa difficoltà a poter difendere tutti.

Permaloso e Presuntuoso, appunto ( lo sa persino l’ex Ministro Cancellieri)!!