domenica 12 giugno 2016

Partite di calcio come guerre




E tempo di Europei e l’Italia debutta domani 13 giugno contro il Belgio. Per questa ragione sembra interessante approfondire il tema della scriminante dell’accettazione del rischio. Quanto a noi italiani, Winston Churchill disse:“gli Italiani perdono le guerre come se fossero partite di calcio e le partite di calcio come se fossero guerre”. Tanta foga si manifestò in una partita di calcio del campionato sardo, quando un giocatore della squadra dell'Alghero, in un'azione di gioco, al fine d'interrompere l'azione avviata dall’avversario della squadra del Tempio, il quale, attorno al 48° minuto del secondo tempo, impossessatosi del pallone aveva dato vita ad un veloce contropiede della squadra ospitata, spingendo davanti a sé la sfera, con l'intento di guadagnare prestamente l'area di rigore, attingeva, con eccessiva violenza, con un calcio la gamba dell'avversa rio, causandogli lesioni gravi, consistite nella frattura della tibia sinistra. Una recente pronuncia (Cass. Pen., Sez. IV,sentenza n. 9559, decisa il 26 novembre 2015, depositata in Cancelleria l'8marzo 2016) in tema di reato colposo prende le mosse proprio da questo avvenimento. Com’è noto, la Federazione Italiana Giuoco Calcio è titolare di una potestà disciplinare sui propri associati in relazione ad una prospettiva funzionale al perseguimento dei propri fini istituzionali. 
Tale potere della federazione discende dagli ampi margini di autonomia riconosciuti all’ordinamento sportivo dall’ordinamento giuridico generale. Il problema che si pone è, appunto, quello dell’individuazione del confine entro il quale l’associato, in nome della sua contemporanea appartenenza a quell’ordinamento particolare, può essere privato ovvero, sotto diverso angolo visuale, è tenuto a rinunciare ai diritti allo stesso spettanti quale componente dell’ordinamento giuridico statuale. I problemi sorgono nell’ambito degli sport cosiddetti “a contatto eventuale” nel senso che il contatto fisico, pur non costituendo tratto caratterizzante il gioco, è ammesso, seppur entro determinati limiti. Premesso che, ovviamente, il quantum di violenza consentita o tollerata muta al variare delle finalità tecniche della specifica disciplina sportiva presa in considerazione, è possibile osservare come, normalmente, un fatto che se commesso al di fuori dell’esercizio dell’attività agonistica costituirebbe, di per sé, reato, diviene lecito e, comunque, consentito ove si verifichi in sede sportiva ed all’interno del quadro costituito dalle regole del gioco. Con la sentenza n. 9559 dell'8 marzo 2016, la Cassazione penale, sezione quarta, seguendo l'opinione più diffusa e convincente in materia, aderisce al principio enunciato, escludendo invece l'operatività di una tale scriminante nei seguenti casi:
a) quando si constati l'assenza di collegamento funzionale tra l'evento lesivo e la competizione sportiva;
b) quando la violenza esercitata risulti sproporzionata in relazione alle concrete caratteristiche del gioco e alla natura e rilevanza dello stesso (a tal ultimo riguardo, un conto è esercitare un agonismo, anche esacerbato, allorquando sia in palio l'esito di una competizione di primario rilievo, altro conto quando l'esito non abbia una tale importanza o, ancor meno, se si tratti di partite amichevoli o, addirittura, di allenamento);
c) quando la finalità lesiva costituisce prevalente spinta all'azione, anche ove non consti, in tal caso, alcuna violazione delle regole dell'attività".
Si esclude, in particolare, la possibilità di invocare la scriminante del consenso dell'avente diritto, di cui all'art. 50 cod. pen., in quanto non può giungere "fino a giustificare lesioni irreversibili dell'integrità fisica e financo (in alcune discipline) la morte"; parimenti quella dell'esercizio del diritto, ex art. 51 cod. pen., la quale "non consentirebbe di escludere dall'area della penale responsabilità tutte quelle condotte che, pur commesse in violazione del regolamento che disciplina la singola disciplina sportiva, non risultino esuberare l'area del rischio accettato". Costituisce, infatti, secondo la sentenza in esame, un sapere largamente condiviso "la constatazione che l'esercizio, specie con i caratteri agonistici delle gare di maggior rilievo, di una disciplina sportiva che implichi l'uso necessario (es. pugilato, lotta, ecc.) o anche solo eventuale (calcio, rugby, pallacanestro, pallanuoto, ecc.) della forza fisica, costituisce un'attività rischiosa consentita dall'ordinamento, per plurime ragioni, a condizione che il rischio sia controbilanciato da adeguate misure prevenzionali, sia sotto forma di regole precauzionali, che dall'imposizione di obblighi di cure e trattamento a carico delle società sportive operanti". Si è inoltre specificato che "l'area consentita è delimitata dal rispetto delle regole del gioco, la violazione delle quali, peraltro, deve essere valutata in concreto, con riferimento alle condizioni psicologiche dell'agente, il cui comportamento scorretto, travalicante, cioè, quelle regole, può essere la colposa, involontaria evoluzione dell'azione fisica legittimamente esplicata o, al contrario, la consapevole e dolosa intenzione di ledere l'avversario, approfittando della circostanza del gioco".
Nella fattispecie in esame l'infortunio è maturato in un frangente di gioco particolarmente intenso (gli ultimi minuti dell'incontro di una partita di calcio del campionato serie Eccellenza). L'atto era manifestamente indirizzato ad interrompere l'azione di contropiede della squadra avversaria, mediante il tentativo di impossessarsi regolarmente del pallone. La condotta del calciatore, giudicato colpevole dal giudice di merito del reato di cui all'art. 590, commi 1 e 2 c.p., viene ritenuta invece dalla Cassazione meritevole di censura solo nell'ambito dell'ordinamento sportivo, "non già perché smodatamente violenta (la pienezza agonistica qui era giustificata dal contesto dell'azione, dal momento di essa e dagli interessi in campo), bensì perché, mal calcolando la tempistica, invece che cogliere il pallone, aveva finito per colpire la gamba dell'avversario che già aveva allungato la sfera in avanti; ma certamente non sconfina dal perimetro coperto dalla scriminante" atipica dell'accettazione del rischio.

domenica 5 giugno 2016

Fine pena mai: la morte viva



Aldo Moro nelle sue lezione universitarie avvertiva gli studenti, ma forse anche il legislatore e i politici: «Ricordatevi che la pena non è la passionale e smodata vendetta dei privati: è la risposta calibrata dell’ordinamento giuridico e, quindi, ha tutta la misura propria degli interventi del potere sociale, che non possono abbandonarsi ad istinti di reazione e di vendetta, ma devono essere pacatamente commisurati alla necessità, rigorosamente alla necessità, di dare al reato una risposta quale si esprime in una pena giusta». Oggi affrontiamo un tema che certamente farà discutere ma che non si uò tralasciare a lungo ormai è necessario prendere una ferma posizione su quelli che dovrebbero essere diritti costituzionalmente garantiti. L'ordinamento italiano, che contempla la pena dell'ergastolo ma consente di mitigarne il rigore grazie ai benefici penitenziari, preclude a determinate categorie di ergastolani (c.d. ostativi) l'accesso a tali misure premiali. Sono 1.600 (erano 408 all’approvazione della legge) gli ergastolani in carcere condannati per reati che impediscono il loro accesso alle alternative al carcere e, tra esse, alla liberazione condizionale, l’unico istituto che consente a chi abbia già scontato almeno 26 anni di pena detentiva di non morire in carcere. Sono, insomma “ergastolani ostativi”. 
Pochi sanno che la pena dell’ergastolo di oggi non è più quella di una volta, perché ora i tipi di ergastolo sono due: quello normale, che manca di umanità, proporzionalità, legalità, eguaglianza ed educatività, ma ti lascia almeno una speranza, per quanto incerta, di poter uscire in permesso dopo 10 anni, dopo 20 anni in semilibertà e dopo 26 anni in libertà condizionale; poi c’è quello ostativo, che ti condanna a morte facendoti restare vivo, senza nessuna speranza. Per meglio comprendere la questione bisogna avere presente la legge 356/92 che introduce nel sistema di esecuzione delle pene detentive una sorta di doppio binario, nel senso che, per taluni delitti ritenuti di particolare allarme sociale, il legislatore ha previsto un regime speciale, che si risolve nell’escludere dal trattamento extramurario i condannati, a meno che questi collaborino con la giustizia: per questo motivo molti ergastolani non possono godere di alcun beneficio penitenziario e di fatto sono condannati a morire in carcere. La finalità rieducativa della pena? 
Se per “rieducazione” intendiamo un concreto processo di reinserimento sociale cui deve tendere la pena – e non una semplice emenda morale che il reo raggiunge chiuso nella sua cella al termine dei suoi giorni – è del tutto evidente che una pena senza fine (“MAI” era scritto nel fascicolo degli ergastolani alla voce “fine pena”, prima che l’automazione informatica imponesse un codice numerico: 99/99/9999) non è costituzionalmente ammissibile. Inoltre, un’adeguata valutazione dell’altro principio costituzionale per il quale le pene non devono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità, sarebbe anch’esso sufficiente a motivare l’incostituzionalità di una misura che non offre alcun fine alla vita umana se non quella di soffrire e morire per essere d’esempio negativo ad altri.
Tutti questi argomenti erano già in scena quando il legislatore decise che bisognasse impedire legalmente ai condannati per delitti gravi o legati alla criminalità organizzata di accedere alle misure alternative.
Ma allora molti credevano veramente che in Italia l’ergastolo mai si scontasse per intero. Oggi no. Con la preclusione all’accesso alle alternative, la gran parte degli ergastolani sconta la propria pena per intero, fino al 99/99/9999.


La preclusione alle alternative stabilita dalla legge non è assoluta, ma può essere aggirata collaborando con la giustizia, o dimostrando di non poterlo fare, di non aver nulla da dire. E dunque, secondo la Corte Costituzionale, l’ergastolano che non accede alle alternative è causa del suo stesso male. Evidentemente ai giudici della Corte non è venuto in mente che quel modo di sfuggire alla morte civile ha qualcosa di terribilmente inquisitorio: un pubblico ministero sente che io potrei sapere qualcosa su un fatto di reato; sente, ma non sa (altrimenti non me lo chiederebbe e procederebbe altrimenti); se io gli confermo le sue sensazioni, in cambio potrò avere una prospettiva di liberazione condizionale, e magari prima qualche permesso-premio; se non gli confermo quelle sensazioni (perché non so o perché “non voglio mettere un altro al posto mio”, come dice Carmelo Musumeci) marcirò in galera per il resto della mia vita. Non chiamiamola tortura, per carità, ma libera scelta proprio no.

domenica 29 maggio 2016

Caffellatte: la convivenza amorosa



La composizione è un procedimento morfologico che permette di formare parole nuove combinando insieme due (o più) parole autonome, come per caffellatte: è nota, infatti, la pacifica convivenza del latte con il caffè. Mutuando questo gioco di parole dalla semantica della lingua italiana vogliamo oggi parlare dei contratti di convivenza. Si tratta di accordi con cui la coppia definisce le regole della propria convivenza, attraverso la regolamentazione dei rapporti patrimoniali della stessa ed alcuni limitati aspetti dei rapporti personali. Possono essere stipulati da tutte le persone che, legate da vincolo affettivo, decidono di vivere insieme stabilmente (c.d. convivenza more uxorio). Più precisamente, ci si riferisce all’unione di vita stabile tra due persone legate da affetto che decidono di vivere insieme al di fuori del legame matrimoniale o perché è loro preclusa la possibilità di sposarsi (ad esempio, due conviventi dello stesso sesso) o perché è loro precisa volontà quella di non soggiacere al vincolo matrimoniale. La figura giuridica dei contratti di convivenza è una delle novità più rilevanti della legge sulle unioni civili e sulle convivenze di fatto, la L. 20 maggio 2016 n.76nota come “legge Cirinnà”, che entrerà in vigore il prossimo 5 giugno. Su questo fronte  nasce la nuova competenza in capo ai professionisti legali che, insieme ai notai, saranno chiamati ad autenticare la sottoscrizione dell'atto (pubblico o scrittura privata), nonché le sue modifiche e la sua risoluzione
Dovranno attestare la liceità dell'accordo, in conformità alle norme imperative e all'ordine pubblico, nonchè ricevuto l'atto provvedere, ai fini dell'opponibilità ai terzi, a trasmetterne copia (entro i successivi 10 giorni) al comune di residenza dei conviventi per l'iscrizione all'anagrafe. Con la nuova legge l’iscrizione anagrafica delle convivenze (che non è una registrazione di stato civile) assolve soltanto a funzioni di attestazione e di prova dell’inizio e della durata della convivenza. Dal contratto di convivenza nascono dei veri e propri obblighi giuridici a carico delle parti che lo hanno sottoscritto. Pertanto la violazione di taluno degli obblighi assunti con il contratto di convivenza legittima l'altra parte a rivolgersi al giudice per ottenere quanto le spetta. La durata "naturale" del contratto di convivenza coincide con la durata del rapporto di convivenza. E' logico quindi subordinare gli effetti del contratto alla permanenza del rapporto di convivenza. Ciò non toglie che vi siano alcuni accordi destinati a produrre i loro effetti proprio a partire dalla cessazione del rapporto di convivenza: si pensi a tutti gli accordi che fissano le modalità per la definizione dei reciproci rapporti patrimoniali in caso di cessazione della convivenza. Se nel contratto sono contenuti anche accordi di questo tipo, alla cessazione del rapporto di convivenza, il contratto continuerà a trovare applicazione proprio per disciplinare la fase di definizione dei rapporti patrimoniali e la divisione dei beni comuni. 
In questa prospettiva resta fondamentale la differenza tra contratti di convivenza” - che sono quelli con efficacia nei confronti dei terzi cui fa riferimento la nuova legge – e “contratti tra conviventi” con efficacia limitata ai rapporti tra le parti che appartengono da tempo alla prassi di regolamentazione dei reciproci rapporti patrimoniali nella convivenza di fatto. Il contratto di convivenza «non può essere sottoposto a termine o condizione» cioè non tollera di avere una scadenza (ad esempio: «restiamo in regime di comunione dei beni per cinque anni») né di essere subordinato a eventi futuri («Tizio si obbliga a versare un contributo economico doppio alla vita familiare se venderà la propria casa»). In questi casi, è però prescritto che la condizione e il termine non infettano il contratto: esso rimane valido, mentre condizione e termine vanno considerati come non esistenti. Comunque, se la convivenza registrata cessa, qualora uno degli ex conviventi versi in stato di bisogno e non sia in grado di provvedere al proprio mantenimento, il giudice stabilisce il diritto di costui di ricevere dall’altro convivente gli alimenti, i quali devono essere assegnati per un periodo proporzionale alla durata della convivenza. Si apre un nuovo capitolo per il diritto di famiglia, dunque, che si allarga non solo alle unioni civili ma anche a questa nuova forma di convivenza, regolata e tutelata dall’ordinamento. Le nuove prerogative degli avvocati, invece, si inseriscono nel quadro più ampio di un percorso legislativo, che colloca il professionista non più solo nelle aule dei tribunali ma che lo rende soggetto attivo nella giurisdizione forense.

domenica 22 maggio 2016

La guerra dei Roses



Nel momento dell’esaurimento del progetto comune di vita la coppia affronta la delusione alimentata da quel rancore irrazionale difficile da controllare rivolto allo spasmodico tentativo di ripristinare dal punto di vista economico la situazione precedente al negozio giuridico matrimoniale. Infatti, nel momento iniziale della scelta matrimoniale le coppie compiono una serie di scelte sconsiderate relativa all’intestazione dei beni materiali della “famiglia” sia per le ragioni del cuore che per sfuggire al fisco; per non parlare delle madri che lasciano il lavoro per accudire i figli. Tutto questo senza tutelarsi con alcun atto scritto che attesti almeno la scelta comune e condivisa. E’ pacifico che fuori dalle dinamiche degli affetti familiari nessuno mai pregiudicherebbe in questo modo la propria autonomia. Quindi finito l’amore ed il progetto di vita in comune diviene inaccettabile ciò che appariva valido ed inizia, così, la madre di tutte le guerre per ricostruire una nuova vita personale e patrimoniale. Il primo passo è il ricorso introduttivo per la separazione. All’udienza presidenziale l’ingrato compito del magistrato sarà quello di stabilire la capacità reddituale dei coniugi e quindi, se richiesto, stabilire, in via provvisoria ed urgente, un assegno di mantenimento a favore del coniuge economicamente più debole; a meno che non ravvisi la necessità di assumere ulteriori informazioni, non essendo chiaro il quadro fornito dai coniugi mediante l’allegazione della documentazione attestante i rispettivi redditi. 
Gli accertamenti che il Presidente può disporre, pertanto, sono volti, essenzialmente, alla determinazione dell’effettivo reddito dei coniugi rispetto alle dichiarazioni allegate dalle parti, rapportato al tenore di vita dalle stesse rappresentato. Le informazioni che il Presidente può assumere in proposito, ai sensi dellart.738 c.p.c., sono le più svariate: dalle richieste alla Pubblica Amministrazione, ad organi della polizia giudiziaria o anche a privati sui redditi di lavoro e sulla consistenza del patrimonio. Le notizie di cronaca relative alla “pressione fiscale” in continuo aumento, quelle relative alla crisi del mercato del lavoro, rendono sempre più “frontale” il confronto tra chi sia costretto a “pagare” e chi invece “attende”  quel pagamento. Oggi, l’analisi delle singole capacità reddituali dei membri della coppia richiede l’individuazione di strumenti adeguati per consentire al magistrato di leggere ben al di là dei modelli reddituali messi a disposizione per l’udienza che permettono esclusivamente di calcolare la base di reddito sulla quale calcolare l’imposizione fiscale ma inevitabilmente tacciono in merito all’effettivo spessore reddituale familiare. Infatti, i suddetti modelli, non indicano molte spese familiari che non essendo deducibili fiscalmente non compaiono nella dichiarazione dei redditi. 
Per sollevare il velo della realtà economica in alcuni tribunali italiani sono stati approvati protocolli che invitato i coniugi al deposito di una dichiarazione giurata nella quale indicare tutte le proprietà immobiliari, i conti correnti bancari o postali, le carte di credito e gli investimenti in uso alle parti. La grande innovazione, però, è stata che ha consentito ex art. 155 – quinquies disp att. C.p.c.e legge 162/14  l’accesso all’Anagrafe Tributaria con estensione alla parte privata processuale di adire il Giudice Amministrativoper superare il “silenzio rifiuto” frapposto dall’Amministrazione finanziaria. Con la sentenza n. 29/16 del TAR Sicilia, infatti, si è definitivamente superato il suddetto ostacolo ordinando all’Agenzia delle Entrate di “esibire e rilasciare alla parte richiedente copia della documentazione richiesta nel termine di 30 giorni riconoscendo quindi il diritto di accesso ai documenti amministrativi a chiunque abbia interesse diretto concreto ed attuale corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso. Il risultato così, infatti, non sarà più un “vuoto per pieno” che costringe l’onerato ad un “minimo di sopravvivenza” che non gli consente di far fronte agli obblighi impostigli ma consentirà ad ambo le parti la possibilità di ricercare, ma anche dimostrare, il reale “tenore di vita”.